Un meridionalista contro Pino Aprile
Nel suo “Cinque ragioni per stare alla larga da Pino Aprile” lo studioso calabrese Pino Ippolito Armino conduce una critica serrata al “revisionismo” antirisorgimentale a cui il giornalista pugliese deve la grande notorietà che ne ha propiziato la discesa in politica
Il titolo è forte, il contenuto è più pacato. Tuttavia, Cinque ragioni per stare alla larga da Pino Aprile (Pellegrini, Cosenza 2019) è un pamphlet che funziona.
Funziona, innanzitutto, grazie alla sua brevità (51 pagine in tutto, di cui 42 di testo) che consente una facile messa a fuoco degli argomenti chiave.
Poi, dato non trascurabile, Cinque ragioni… funziona perché è il libro di un autore calabrese, per la precisione di Reggio Calabria, pubblicato da uno storico editore calabrese, che vanta nel suo ricco catalogo una corposissima quantità di titoli dedicati al Mezzogiorno.
Inoltre, c’è da dire che Pino Ippolito Armino, l’autore, non è proprio di primo pelo sulle problematiche meridionali, avendo già pubblicato Brigantaggio politico nelle Due Sicilie (Città del Sole, Reggio Calabria 2015) e Quando il Sud divenne arretrato (Guida, Napoli 2018), due ricerche sostanziose su alcuni cardini della questione meridionale.
Con Cinque ragioni… Armino tira le somme ed entra in polemica col cosiddetto revisionismo antirisorgimentale.
La scelta del bersaglio non è un caso: Pino Aprile è il revisionista che più ha colpito l’immaginario mainstream, grazie a un’indiscutibile capacità comunicativa, alla tempistica con cui ha saputo lanciare la sua polemica antirisorgimentale e antisettentrionale a partire da Terroni (cioè in coincidenza con la celebrazione del 150esimo dell’Unità d’Italia, mentre la grande crisi azzannava il Sud) e a rapporti privilegiati con i media che contano costruiti in una carriera ultaquarantennale.
Ma anche Armino ha saputo cogliere una tempistica particolare, perché il suo pamphlet è uscito poco dopo la fondazione del Movimento 24 agosto-Equità territoriale.
Infatti, si legge a pagina 10 di Cinque ragioni…:
«Per sfruttare la sua indubbia popolarità, Aprile ha recentemente fondato un nuovo movimento politico l’M24A […]. Naturalmente non è né di destra né di sinistra. Non dice nulla del cambiamento climatico, nulla sull’immigrazione, niente sulle diseguaglianze sociali. Niente ancora sulla mafia, la corruzione o l’evasione fiscale. Il movimento nasce con uno scopo solo, ottenere quella parità territoriale fra Nord e Sud che è stata sin qui negata. […] La secessione, come estrema arma di ricatto verso un Nord avaro e ingordo, non è affatto esclusa».
Perciò Armino, che ovviamente non condivide il revisionismo apriliano, declina anche in chiave politica la sua critica culturale in alcuni passaggi che val la pena di riportare:
«Se prendiamo per buone le tesi di Aprile mettiamo nel mirino un nemico esterno inesistente e assolviamo in toto la classe dirigente meridionale. Non è questo il modo migliore per far avanzare il Mezzogiorno e neppure può esser questa la risposta da dare alle richieste di autonomia territoriale, queste sì pericolosamente secessioniste, che vengono dall’area più ricca del Paese» [pp: 10-11].
E ancora:
«Non si fa avanzare di un millimetro la questione meridionale se si accompagna la sacrosanta richiesta di riequilibrio territoriale a narrazioni storicamente infondate» [pag. 11].
Che e quanto queste narrazioni siano infondate, Armino lo dimostra nei cinque capitoletti del suo libro, in cui non menziona quasi mai Aprile ma ne smonta le tesi per sommi capi. Quasi a voler ribadire che il bersaglio vero non è il giornalista pugliese datosi alla politica ma le tesi con cui egli si è conquistata quella popolarità di cui l’impegno politico è stato lo sbocco più recente.
Queste tesi, è doveroso ricordare, non sono solo di Aprile ma circolavano già prima del successo di Terroni in vari ambienti di nicchia che sono emersi e si sono coagulati grazie all’esplosione dei social media.
Dunque, non è vero, dimostra lo scrittore reggino nel primo capitolo, che il Sud è stato piegato dal Nord, ma è vero che gli ultimi re Borbone stroncarono fisicamente l’élite culturale napoletana, mandando alla forca i protagonisti della Repubblica Partenopea prima e i patrioti del 1848 poi.
Non è vero, è la tesi del secondo capitoletto di Cinque ragioni…, che l’Unità nazionale sia stata solo imposta dal Piemonte sulla punta delle baionette.
Al contrario, è vero che l’aspirazione all’Unità era coltivata sin da metà Settecento dalle élite intellettuali meridionali, a partire da Antonio Genovesi e da parte della classe politica del Sud dell’epoca.
Non è vero ancora, prosegue il terzo capitolo, che il divario economico tra Nord e Sud sia iniziato con l’Unità nazionale. Secondo Armino la forbice tra le due Italie risale al ventennio che precede la spedizione dei Mille.
L’anno chiave sarebbe il 1848, in cui il Piemonte agricolo gettò le basi della sua modernizzazione con lo Statuto Albertino e il Mezzogiorno, in cui pure si tentavano alcuni esperimenti industriali grazie al protezionismo doganale, reagì con la repressione e con la censura.
Non è vero che il ritardo del Sud, ribadisce il quarto capitolo, fu l’esito voluto (a sentire Aprile e gli altri revisionisti, programmato) della politica predatoria del Nord.
Questo ritardo si accentuò a partire dagli anni ’90 dell’Ottocento, con l’adozione, avallata dalle classi dirigenti meridionali, di quelle politiche protezioniste che consentirono il lancio dell’industria italiana concentrata nel Nord e fecero regredire l’agricoltura meridionale, che era cresciuta nel ventennio precedente, caratterizzato da politiche liberiste.
Il presunto (e indimostrato) sacco del Sud che sarebbe stato operato dai piemontesi non c’entra niente.
Di conseguenza non sono veri, anzi sono fake vere e proprie, molti cavalli di battaglia del terronismo: il massacro dei soldati meridionali a Fenestrelle, il furto dell’oro di Napoli, la distruzione delle ferriere, il presunto benessere dei contadini del Sud, che Pisacane fosse una spia britannica e Garibaldi un masnadiero.
Perciò nel quinto capitolo Armino utilizza la vicenda di Mongiana come case study per demistificare la narrazione terronista: l’altoforno della ferriera calabrese non fu smontato e spedito al nord ma, al contrario, vi furono dei tentativi di recupero dell’attività industriale, ivi inclusa la privatizzazione, che non andarono a buon fine ma comunque durarono per tutto il ventennio successivo.
Lo smantellamento prosegue nella Conclusione del volumetto, in cui l’autore passa in rassegna alcuni padri nobili o precursori del meridionalismo: Gramsci, Salvemini, Nicotera, Dorso, Romeo per dimostrare che nessuno di loro si azzardò mai a dare credito alle affermazioni della propaganda borbonica: le fucilazioni in massa, i saccheggi sistematici ecc.
Al contrario, queste tesi hanno avuto un percorso carsico e sono emerse lì dove meno ce lo si sarebbe atteso.
Ad esempio, in un autore di sinistra come Nicola Zitara, che nei suoi ultimi scritti prese posizioni filoborboniche e reazionarie. Anche sulla base, secondo Armino, di un’errata interpretazione degli Annuari di Cesare Correnti e Pietro Maestri.
Il Sud, è la conclusione di Cinque ragioni…, ha bisogno di ben altro che di un revanscismo politico basato sulle fake.
Semmai, «ha urgenza di una nuova classe dirigente capace di affrontare le difficili sfide della modernità con serietà e rigore, senza ricorrere alle falsificazioni storiche di Pino Aprile per affermare il buon diritto delle popolazioni meridionali a condividere il benessere e la ricchezza raggiunte dal resto del Paese» [pag.42].
Già:
«Il Mezzogiorno ha già subito abbastanza torti che non serve inventarne di nuovi; le falsità, semmai, possono rendere meno credibili le ragioni autentiche del malessere. Facili scorciatoie e comode semplificazioni deformano la storia ed hanno, in più, la pessima conseguenza di toglierci di dosso ogni responsabilità» [pp: 11-12].
Non c’è davvero altro da aggiungere.
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Quante sciocchezze tutte assieme, è normale che il Piemonte si sia modernizzato prima, infatti ha fatto tutto a debito (e da qualche parte dovevano poi recuperarli)….
Egregio “Pippi”,
faccia pure il leone da tastiera quanto le pare.
Non tocca a me darle lezioni di economia o di storia economica, due discipline di cui Lei, al pari di molti, dimostra di non avere i fondamentali.
Se vuole, spulci un po’ L’IndYgesto e capirà che nessuno rubò nulla a nessuno con l’Unità d’Italia e che, soprattutto, l'”oro di Napoli” rimase lì dov’era fino alla nazionalizzazione del sistema bancario ideata dal fascismo.
Una sola preghiera: la prossima volta che vuole intervenire, ci metta la faccia, come fanno in tanti. E comunque, tenga per sé certi giudizi davvero sciocchi.
Cordialmente,
Saverio Paletta
Ottimo articolo