Patriottico e garibaldino, il Socialismo tricolore secondo Giano Accame
La recente ristampa del celebre pamphlet di uno dei più importanti intellettuali della destra più colta e trasgressiva consente di fare il punto su una svolta importante della storia politica repubblicana: Craxi riscoprì il valore della nazione e lo sdoganò a sinistra. E il paragone con la destra attuale si fa più impietoso…
Galeotto fu il pallone. O forse non solo. Ma sta di fatto che in seguito all’epica vittoria al Mundial del 1982 l’Italia si riempì di tricolori.
La micidiale tripletta con cui Rossi, Tardelli e Altobelli stesero la Germania Ovest e l’urlo di enfatica gioia del mitico Nando Martellini diedero la stura a un’ondata inedita di orgoglio patriottico che ci mise poco a tracimare dal calcio e a invadere la cultura e l’informazione.
Si iniziava a intravedere il cono di luce che annunciava la fine del tunnel che, con la sconfitta bellica, aveva inghiottito il senso di appartenenza nazionale, confinato al più nella nicchia missina.
Su questo fenomeno, che all’epoca scandalizzò buona parte dell’intellighenzia sinistrorsa, sintonizzò subito le antenne un intellettuale scomodo e sensibilissimo del calibro di Giano Accame, una delle migliori intelligenze uscite, anzi scappate, dal ghetto neofascista.
E di sicuro non poteva sfuggire ad Accame – il quale aveva mollato il Msi nel 1968 ed era reduce dall’esperienza forte ed effimera dell’Unione democratica per la nuova repubblica di Randolfo Pacciardi – che questa rinascita del sentimento nazionale non proveniva dalla destra dell’ultimo Almirante, tra l’altro in pieno riflusso elettorale, né dai partiti-chiesa che continuavano a legittimarsi sulle logiche sempre più logore della Guerra Fredda.
Proveniva dal Psi di Craxi, non ancora presidente del Consiglio, che con la riscoperta del patriottismo mazziniano e garibaldino aveva completato il restyling politico iniziato con lo strappo dal marxismo contenuto nel Vangelo Socialista del ’78.
Ma per Accame in questa svolta c’era di più: la saldatura tra la sinistra e la nazione, che comportava la ricucitura della lacerazione dolorosa del ’14, quando il movimento operaio italiano fu intrappolato nella spaccatura tra neutralisti e interventisti e si condannò all’emarginazione politica.
Era quanto bastava per scrivere un libro. Ci si riferisce a Socialismo Tricolore, un instant book del 1983 uscito per Editoriale Nuova e ristampato lo scorso anno dalla milanese Oaks Editrice con una significativa prefazione di Giorgio Galli.
Nato come pamphlet pieno di riflessioni su un futuro che appariva carico di promesse, Socialismo tricolore ha resistito al logorio del tempo ed è diventato un instant classic. Gli eventi passano, le idee restano e, a volte, tornano d’attualità.
Ieri, in quegli anni ’80 che si annunciavano ruggenti, il socialismo tricolore era l’alternativa praticabile al riflusso che aveva colpito a fondo soprattutto la sinistra, in progressivo scollamento dal Paese reale. Ieri, in quel decennio da cui sembrano separarci secoli, il patriottismo poteva essere un concreto sbocco post ideologico per una politica comunque in cerca di valori forti a cui aggrapparsi. Ieri, la riscoperta del tricolore poteva essere una via di fuga dalla subalternità che aveva spinto il Partito socialista italiano in una nicchia (l’unità a sinistra vituperata e temuta da Craxi in cui il Pci stava sopra e il Psi sotto, per capirci) e lo stimolo per una vera cultura di governo.
Non che il Psi di questa cultura di governo fosse privo, intendiamoci. Tuttavia il centrosinistra degli anni ’60 aveva creato le condizioni per la subalternità anche alla Dc e, finita quell’esperienza comunque importante, il Partito socialista imboccò la china discendente (anche dal punto di vista elettorale) interrotta solo dall’ascesa di Craxi.
E oggi? Di sicuro il fatto che la riedizione di Socialismo tricolore sia avvenuta nel 2019 non è un caso. E non solo perché il 2019 è stato il decimo anniversario della scomparsa di Accame ed è stato l’anno in cui i reduci del craxismo si sono preparati, grazie anche al notevole sforzo editoriale della Fondazione Craxi, a celebrare il ventesimo anniversario della scomparsa dello storico leader.
Il 2019 è stato l’anno in cui la crisi politica italiana ha raggiunto l’apice. È una crisi di identità a sinistra, in cui il Pd è rimasto schiacciato dall’assalto dei populismi, segno che la linea moderata, liberista e acriticamente europeista introiettata da Renzi non paga più e, col senno del poi, ha avuto costi politici insostenibili.
Ma la crisi culturale è devastante soprattutto a destra, dove il sovranismo ha fatto piazza pulita di ogni tradizione politica. In questo caso il problema è diverso: è vero le formule rozze e ipersemplificate di cui Salvini e la Meloni hanno fatto sfoggio pagano nell’immediato. Tuttavia, il prima gli italiani, che sembra la caricatura 2.0 del Primato di Gioberti, è uno slogan retorico che affonda nel vuoto.
Non si può praticare il nazionalismo ignorando la nazione che è un’identità complessa e carica di storia e cultura, né si può essere patriottici senza capire cosa sia la Patria.
E allora sì, c’è una differenza abissale tra il Viva l’Italia pronunciato con stentorea timidezza da Craxi a Palermo nel 1981 e il prima gli italiani di Salvini: la stessa che corre tra l’ottimismo e la paura, tra la volitività e la reattività.
Sì, c’è un abisso tra la rivendicazione orgogliosa del Risorgimento e il rabbioso richiamo al mito della frontiera. Tra la spiritualità dei Padri del Risorgimento (che per chi scrive restano i Padri della Patria) e le glaciali rozzezze ispirate dai guru dell’alt right all’amatriciana.
Tra Giuseppe Mazzini e Steve Bannon.
Ci voleva, allora, un grande intellettuale di destra avvezzo alle eresie come Accame per ribadire la vera genesi del nazionalismo, italiano e non solo:
«Il moderno concetto di nazione nasce a sinistra, con la Rivoluzione francese, e si afferma ancora in area progressista con le rivoluzioni del 1848».
Non a caso, affascina ancora la carrellata agile e densa di personaggi risorgimentali e protorisorgimentali esibita in Socialismo tricolore: ecco che i ritratti di Carlo Bianco di Saint Jorioz, Carlo Pisacane, Carlo De Cristoforis, Garibaldi e Cesare Battisti contrappuntano le cronache, politiche e culturali dei primi ’80: cinque grandi figure di militari, di fede socialista e di ispirazione umanitaria e libertaria rivivono come ispiratori della politica craxiana dell’epoca.
Era la politica di un Paese che tentava di affacciarsi da protagonista sulla scena internazionale, sia a livello economico (l’esplosione mondiale del Made in Italy ricorda qualcosa?), sia a livello più propriamente politico (c’è l’imbarazzo della scelta: si va dall’intervento in Libano all’installazione dei missili Usa in Sicilia, dal filoarabismo aggressivo all’incidente di Signonella).
Ed ecco, allora, che la riscoperta del Risorgimento divenne l’occasione per un patriottismo dalla postura civile e pacifica. Soprattutto, un pattriottismo non xenofobo, grazie al quale l’identità italiana, filtrata attraverso la lettura mazzinian-garibaldina, diventava l’input di un internazionalismo sano, basato cioè sul dialogo e il confronto tra le culture nazionali e non sul loro annullamento.
Facciamo solo finta di non sapere com’è andata a finire e di non sapere come quelle premesse e promesse si siano volatilizzate, sebbene il moralismo giudiziario di Tangentopoli appaia abbondantemente superato, visto che le successive classi dirigenti italiane, grazie anche alla loro insipienza, hanno impegnato la magistratura molto più del craxismo e della Dc.
Di tutta quella epopea mancata resta la nobiltà delle intenzioni, fotografata alla grande da un giornalista di rara sensibilità e di cultura ancora più rara.
Già: Accame lesse il craxismo oltre Craxi e, da fascista di sinistra, riuscì a cogliere la portata storica di questa mini rivoluzione socialista: mettere il garofano al posto della falce e martello abusata da altri e trasformatasi in simbolo liberticida, accantonare il marxismo e riscoprire la questione nazionale significava colmare il divario aperto con strascichi pesantissimi dai padri dell’Internazionale:
«Con il Manifesto di Marx ed Engels, la sinistra si assegnava obiettivi di natura internazionalista e sospingeva quindi gradualmente a destra le rivendicazioni nazionali. Contrapporre la giustizia sociale al sentimento nazionale fu un errore fatale, che ha lacerato le masse sino e oltre la soglia della guerra civile».
Questa scelta tricolore, azzardata e criticata, avrebbe avuto implicazioni forti: il ricucimento dello strappo tra riformisti e rivoluzionari, la forzatura a destra (che in parte riuscì) dell’arco costituzionale e la possibilità di esibire un orgoglio nazionale finalmente senza complessi e, soprattutto, senza quell’oikofobia ispirata dalla sinistra rimasta nell’orbita di Mosca.
Oggi la situazione è cambiata: non esiste più la classe operaia di allora che evolveva in borghesia. Al contrario, esiste un ceto medio impoverito materialmente e regredito culturalmente, che confonde la paura per l’altro con l’orgoglio dell’appartenenza. E ciò fa sì che il patriottismo, a lungo conculcato, esploda nella sua caricatura sovranista.
Ma, ricorda Accame, il patriottismo è davvero altro:
«È necessario affrancare il principio della dinamica nazionale dalla sua limitata e per molti repugnante versione di caserma. Ricuperare il concetto di nazione come fattore coesivo di solidarietà e energia per le opere di pace: una patria nella quale deve essere anzitutto dolce e degno vivere».
Serve davvero altro per riscoprire la lezione di un Maestro che sarebbe davvero ingiusto dimenticare, come sta facendo già una buona parte della sua destra?
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