Eparina vs Coronavirus, parla Mascitelli
Il medico toscano fa il punto sulla sua scoperta: il farmaco non fa miracoli ma può salvare la vita dei malati se somministrato per tempo. L’eparina resta un forte nella lotta alla pandemia
L’eparina non fa i miracoli. Tuttavia, questo anticoagulante, diffuso a costi accessibili per le strutture e i pazienti, può avere una grande efficacia nel trattamento dei sintomi del Coronavirus.
«Può, se somministrato per tempo, salvare la vita dei pazienti o alleviarne le sofferenze e aiutare la guarigione».
Parla il professor Alessandro Mascitelli, chirurgo vascolare e specialista di Medicina interna e direttore del Centro flebologico della Casa di cura Villa Tirrena, una struttura sanitaria toscana accreditata con il Servizio sanitario nazionale.
Toscano doc (è di Pontedera e ha un incarico di insegnamento presso la Scuola di specializzazione di Chirurgia vascolare dell’Università di Pisa), Mascitelli è autore di una scoperta medica che sta già dando i suoi frutti nel contrasto al Covid-19.
Il perché lo spiega proprio l’autore di questa scoperta.
Molti specialisti hanno parlato dell’efficacia dell’eparina. Ma la scoperta resta sua.
Voglio precisare che non esistono gare nelle emergenze. O meglio, ne esiste una sola: salvare più vite umane possibili. L’eparina, in questo caso, può essere un aiuto importante, ma a due condizioni.
Quali?
Innanzitutto il controllo medico, poi l’uso tempestivo del farmaco, che, se somministrato sin dai primi sintomi, può salvare la vita del paziente e agevolarne la guarigione.
Come funziona l’eparina sui pazienti affetti da Coronavirus?
Ovviamente non può distruggere il virus, perché è un anticoagulante. È un farmaco che serve ad altro. Ormai è accertato che il Covid-19 genera trombosi nell’organismo che lo ospita e che proprio queste trombosi hanno portato molti pazienti alla morte. L’eparina evita il formarsi dei trombi e allevia le sofferenze del paziente, che può non essere intubato. Ma c’è di più: una parte dell’eparina è costituita dall’eparan solfato, una sostanza presente nelle membrane basali delle arterie e negli alveoli polmonari. Il virus attacca gli alveoli proprio agganciandosi all’eparan solfato.
In altre parole, l’eparina riesce anche a ingannare il virus, che praticamente, nei pazienti trattati con questo farmaco finisce per sparare contro un bersaglio falso.
È più o meno così. Evitare le trombosi significa preservare le capacità respiratorie del paziente e salvargli la vita. Ma significa anche aiutarlo a guarire. Mi soffermo su questo punto perché vorrei che fosse chiaro al massimo: l’eparina non guarisce ma può aiutare a guarire.
Qual è l’aiuto fornito dall’eparina nella guarigione?
Mi spiego con una metafora bellica: se si riesce a fermare le truppe nemiche con delle trincee o delle fortificazioni e a evitare che dilaghino nel territorio risulta più facile respingerle. Ciò avviene in due modi: o con il contrattacco spontaneo delle proprie truppe, finora impegnate nella difesa, o tramite l’intervento di truppe d’assalto speciali. Tradotto in termini medici, significa: o attraverso la reazione dei propri anticorpi o con l’aiuto di antivirali o del plasma. Ma per prima cosa è importante evitare che il virus faccia troppi danni.
Una terapia quasi banale e soprattutto poco costosa, almeno in apparenza.
Nulla è banale nelle scienze mediche. Concordo invece sul fatto che abbia costi contenuti.
Ma come e quando è avvenuta questa scoperta?
A fine febbraio, quando la pandemia era agli inizi. Ho analizzato le cartelle cliniche di vari pazienti affetti da Coronavirus e mi sono accorto che avevano tutti un livello elevato di d-dimero. Il d-dimero è un residuo della fibrina, che è poi la proteina che genera la coagulazione del sangue.
È corretto dire che d-dimero sia una spia della trombosi?
Non è proprio così: diventa una spia della trombosi quando la sua presenza nel sangue è molto elevata. La semplice presenza di questa sostanza non è indicativa di nessuna patologia, ma se il livello è alto, è praticamente sicuro che c’è una trombosi in corso. Che è poi quel che si è verificato in tutti i pazienti che ho esaminato. Tra l’altro, un notevole spunto mi è stato fornito anche dagli articoli di alcuni colleghi cinesi, che comunque convergevano in questa direzione, seppure in maniera piuttosto confusa.
E cosa ha fatto dopo questa scoperta?
Mi sono consultato con il professor Mario Petrini, il direttore di Ematologia dell’Università di Pisa, dal quale ho avuto conferma della bontà di quest’intuizione e, nel giro di pochi giorni, intorno al sei-sette marzo, abbiamo inviato una serie di e mail alle autorità sanitarie e abbiamo avvertito i centri Covid sull’ipotesi dell’eparina.
A questo punto, sorge spontanea una domanda: come mai se era praticamente disponibile da subito questa terapia non è stata usata in maniera massiva?
È utilizzata. Dirò di più: non si può parlare di ritardi perché la pandemia è stata rapida e velocissima e ci ha colti tutti di sorpresa, a partire proprio dalla comunità dei virologi che è ancora perplessa su molte caratteristiche del Covid-19. È un virus capace di mutare in poco tempo ed è molto resistente, visto che può sopravvivere su determinate superfici fino a sette giorni. Inoltre, si disattiva con una temperatura di sessanta gradi. Ma, a dispetto di questa resilienza, il Coronavirus si rivela fragile di fronte a sostanze di uso comune: ad esempio l’alcol. In sintesi, presenta tante di quelle contraddizioni che gli specialisti ne stanno venendo a capo con non poche difficoltà.
Quindi non siamo proprio al sicuro.
Diciamo che finora siamo riusciti a contenere l’impatto e a evitare un’ecatombe che sarebbe potuta davvero diventare spaventosa. Finché non arriva la cura definitiva, magari il tanto sospirato vaccino, queste terapie di accerchiamento sono preziose, perché riescono a salvare le vite.
Ma dal dato empirico dell’uso dell’eparina – e quindi delle trombosi provocate dal virus – è possibile ricavare altre informazioni?
Certo. Per esempio si spiega come mai il virus si sia dimostrato così aggressivo e purtroppo spesso letale negli anziani o perché abbia dimostrato un certo grado di letalità anche in soggetti giovani. Nel primo caso si spiega con l’indebolimento dei vasi sanguigni dovuto all’età, nel secondo con la genetica, perché esistono comunque dei giovani trombofilici, cioè particolarmente predisposti alle trombosi. Questi dati empirici possono rivelarsi preziosi all’interno di ricerche più complesse.
Lei come giudica l’avanzamento delle ricerche?
Notevole, se si considera la velocità con cui si è propagata la pandemia. Il Coronavirus è un nemico da combattere su più fronti. Noi lo abbiamo fatto a livello immediatamente clinico, con risultati giudicati buoni, visto che sono stato contattato per altri studi. Per ora abbiamo l’apprezzabile certezza che anche i soggetti più a rischio, se presi in tempo, possono sopravvivere. Non è davvero poco.
(a cura di Saverio Paletta)
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