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Prima delle foibe, l’esodo dimenticato dei dalmati

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La persecuzione contro gli italiani iniziò prima del tragico epilogo della Seconda Guerra Mondiale. Il regno dei Karageorgevic fece le sue “prove tecniche” di pulizia etnica subito dopo il trattato di Rapallo…

La pulizia etnica contro gli italiani compiuta dai comunisti jugoslavi nel 1943-1948 fu solo la tappa finale di una lunga persecuzione contro gli italiani perpetrata dai nazionalisti slavi, in particolare sloveni e croati, intrapresa con la collaborazione dell’Impero d’Austria nel 1866-1918 e proseguita durante le due guerre sotto la Jugoslavia monarchica.

Il presidente americano Woodrow Wilson

Ogni spiegazione ed interpretazione della vicenda culminata nelle foibe che escluda un’analisi allargata almeno sino alla metà del XIX secolo e che pretenda di ridurle ad una presunta reazione antifascista è di per sé limitata e perciò sostanzialmente erronea.

D’altronde, almeno per la Dalmazia, il periodo di maggiore snazionalizzazione italofoba, che comportò un calo dell’etnia italiana di quattro quindi in quei territori si verificò durante il dominio asburgico.

Le posteriori persecuzioni della Jugoslavia, monarchica prima e comunista poi, completarono la cacciata o assimilazione forzata degli italiani in una regione profondamente latinizzata già nel I secolo a.C. (sette secoli prima dell’arrivo degli slavi) e che per un periodo di tempo lunghissimo era stata considerata parte integrante dell’Italia in quanto inserita pienamente nel suo ambito culturale, economico ed anche politico durante la repubblica di Venezia.

Alla conferenza di pace della prima guerra mondiale l’Italia si vide negare la Dalmazia in violazione del patto di Londra sottoscritto da Gran Bretagna e Francia, in ossequio alla linea filoslava degli Usa di Wilson.

Il presidente Wilson, infatti, sostenne di voler rispettare il principio di nazionalità ma rimase muto davanti all’aggressivo espansionismo slavo, che portò alla fagocitazione nella neonata Jugoslavia di terre abitate in maggioranza da italiani, tedeschi, ungheresi e albanesi.

Il trattato di Rapallo fra Italia e Jugoslavia che nel novembre del 1920 fissò i confini tra i due Stai, lasciò quasi l’intera regione dalmata in possesso del regno dei Karageorgevic, con l’eccezione di Zara.

La firma del trattato di Rapallo

La xenofobia antitaliana dei nazionalisti slavi si espresse in forma cruenta già nei sanguinosi eventi dell’11 luglio 1920, con l’uccisione di marinai italiani durante i fatti di Spalato a opera di gendarmi serbi.

Questo fu solo un antefatto degli eventi, di gran lunga più gravi, che avvennero dopo. Già agli inizi del 1921, non appena si ebbe lo scambio delle ratifiche fra i due governi e l’inizio dell’applicazione del trattato, dal 2 febbraio di quell’anno, le autorità ed i nazionalisti jugoslavi scatenarono una campagna di violenze contro gli italiani che vivevano in Dalmazia.

Il governo jugoslavo si prefisse lo strangolamento economico degli italiani dalmati, che si realizzò con una molteplicità di misure: l’esclusione di molti di loro dalle professioni che tradizionalmente svolgevano (ingegneri, avvocati, notai, medici, farmacisti etc.); l’imposizione di tasse di soggiorno a coloro che fossero giuridicamente cittadini del Regno d’Italia (numerosi dalmati avevano difatti richiesto la cittadinanza italiana) anche se si trattava di persone nate e cresciute in Dalmazia e di antica famiglia dalmata; il licenziamento di operai; il rifiuto di pagare le pensioni a dalmati optanti per il regno d’Italia; l’esproprio di terre senza indennizzo ai proprietari terrieri; il boicottaggio del commercio tenuto da italiani.

Le autorità jugoslave si servirono della mobilitazione di associazioni nazionaliste, come l’Orjunae la Jadranska Straza, per organizzare violenti tumulti contro gli italiani, con devastazioni delle loro case, negozi, edifici sedi di circoli culturali etc. Questo avvenne nell’indifferenza o con l’aperta connivenza della polizia, i cui agenti eseguirono spesso arresti arbitrari e altre angherie a discapito degli italiani.

La copertina del saggio “Fuoco sotto le elezioni”

Le manifestazioni dei movimenti slavi, con riunioni e cortei, in cui erano insultati e minacciati gli italiani erano continue.

Il governo e le autorità locali jugoslave infransero gli accordi presi nel trattato di Rapallo, sostenendo in maniera sofistica che le garanzie previste dall’accordo sarebbero state valide unicamente per coloro che erano giuridicamente cittadini italiani e non per i cittadini jugoslavi di nazionalità italiana. Le scuole italiane rimaste si trovarono nell’impossibilità d’accogliere allievi di nazionalità italiana, ma di cittadinanza jugoslava, per il divieto opposto dalle autorità slave. Le funzioni religiose cattoliche erano celebrate unicamente in forma slava (cioè in rito greco), mentre il clero croato dimostrava solitamente una notevole acrimonia verso gli italiani, come già accadeva sotto l’Impero d’Austria.

L’obiettivo palese degli jugoslavi era costringere gli italiani a scegliere fra la totale assimilazione o l’abbandono della terra natale e cercare scampo nel Regno d’Italia.

La comunità italiana di Dalmazia si ritrovò immiserita, con numerosi uomini ridotti alla vera indigenza per la confisca dei beni o la perdita del lavoro o della pensione. Fu inoltre vessata con la negazione o riduzione della possibilità d’impiegare la propria lingua e d’esprimere la sua cultura, e fu terrorizzata da violenze, arresti arbitrari ed offese. Il risultato fu un esodo dalla Dalmazia al regno d’Italia.

Il grosso della popolazione italiana di Sebenico fuggì quando i militari italiani, in ottemperanza al trattato di Rapallo, abbandonarono la città. Dati forniti al Ministero degli Esteri italiano calcolarono che da quella città su 400 famiglie italiane ne fuggirono 380, riducendo gli italiani da 1.000 a 200.

Soltanto a Curzola già nel febbraio del 1921 si preparavano alla partenza 118 famiglie italiane, per un totale di 354 persone, a cui in seguito se ne aggiunsero successivamente. In generale dalle piccole isole Curzolane l’esodo degli italiani riguardò il 60% della loro popolazione. La fuga verso l’Italia coinvolse un po’ tutte le località dalmate: scapparono da Cittavecchia 115 persone, da Traù 130, da Lissa 140, da Lesina 300 etc.

Uno dei maggiori centri urbani della Dalmazia, la città di Spalato, era stata per secoli ad ogni effetto una città italiana, per lingua, letteratura, architettura, musica, gastronomia, appartenenza politica e religiosa. Gli italiani sfuggiti alla snazionalizzazione slavo-asburgica del 1866-1918 dovettero poi affrontare quella jugoslava dopo la Grande Guerra. In pochi anni gli spalatini italiani scesero da 10.000 circa, quanti se ne contavano ancora nel 1918, a soli 2.000.

Complessivamente furono molte decine di migliaia gli italiani che scapparono dalla Dalmazia al regno d’Italia. Numerosi altri, in numero imprecisato, furono spinti coercitivamente a slavizzarsi per poter continuare a vivere nella regione.

La falsità della lettura delle foibe quale ritorsione per supposte azioni fasciste contro gli slavi risalta anche dal fatto, incontestabile, che sin dopo il primo conflitto mondiale gli italiani dalmati caddero sotto una dura persecuzione, che proseguì quella intrapresa dai nazionalisti slavi in combutta con le autorità imperiali durante il dominio asburgico.

La snazionalizzazione e la cacciata degli italiani dalla Dalmazia sotto la pressione delle autorità jugoslave incominciarono prima ancora che Mussolini prendesse il potere. Cade quindi alla radice l’ipotesi che l’ostilità italofoba fosse una risposta ad un regime fascista il quale neppure esisteva quando l’avversione nazionalista jugoslava aveva già avuto modo di concretizzarsi.

Bisognerebbe piuttosto rovesciare i termini della questione e domandarsi in quale misura dure, reiterate e prolungate oppressioni e vessazioni violente contro gli italiani per mano degli slavi, protrattesi sin dal 1866 e proseguite senza soluzione di continuità con la nascita della Jugoslavia abbiano indotto i fascisti a rispondere ad esse.

[Anna Bencovich, L’Adriatico in fiamme: la tragedia dell’italianità della Dalmazia, Milano, 1933; Diego De CastroAppunti sul problema della Dalmazia, Roma 1945; Diego De Castro, Dalmazia, popolazione e composizione etnica. Cenno storico sul rapporto etnico tra Italiani e Slavi nella Dalmazia, Milano, Ispi, 1978;  Giuseppe Praga, Storia di Dalmazia. Varese, 1981; Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. 1914-1924, Firenze 2007; Valentina Petaros Jeromela, 1918-1921. Fuoco sotto le elezioni. Gli incidenti di Spalato, Trieste e Maresego, Trieste 2018]

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Comments

There are 2 comments for this article
  1. Le analisi di Marco Vigna sembrano impeccabili, ma avendo osservato attentamente i suoi interventi sparsi nel web (specialmente dove il filtro accademico è meno presente e prevale una maggiore sincerità di vedute) sono arrivato alla conclusione che questo storico porta avanti un sottile, dissimulato revisionismo nazionalista, oserei dire cripto-****ista. Nella pagina Fb dell’Unione Istriani ho letto una sua vera e propria giustificazione dell’aggressione italiana alla Jugoslavia del 1941 che fa rabbrividire.

    • Egregio Furlan,
      Ognuno ha diritto alle sue opinioni, incluso Vigna. Il quale, tuttavia, non esprime pareri ma racconta fatti documentandoli.
      Lo fa, con estremo rigore, sull’IndYgesto, lo fa anche su altre tribune online.
      Torneremo a breve anche sull’argomento Jugoslavia.
      Saverio Paletta

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