Il Coronavirus e i nodi irrisolti della Sanità
La pandemia ha scoperto le falle del sistema: la regionalizzazione ha impedito una risposta tempestiva e persino le Sanità più ricche sono andate in tilt troppo rapidamente sotto la spinta dei contagi
Con la precisione innegabile delle lancette di un orologio rotto, che beccano l’ora esatta due volte ogni ventiquattr’ore, Pino Aprile stavolta ci ha azzeccato: la Sanità più ricca, quella della Lombardia, è quella che serve il territorio dove il Coronavirus fa più malati e miete più vittime (leggi qui l’articolo).
Le percentuali dei contagi, ha spiegato il terronista, sono sproporzionate in eccesso alla popolazione e, allo stesso modo, è sproporzionata la percentuale dei decessi, sia rispetto al resto d’Italia sia, soprattutto, rispetto al resto del Nord.
Inutile soffermarsi sulle singole cifre, visto che il bollettino è in aggiornamento continuo. Però le percentuali riportate da Aprile restano valide: in Lombardia ci si ammala quattro volte di più rispetto alla vicina Emilia Romagna, che ha la metà della popolazione, e si muore cinque volte di più. L’esempio più virtuoso resta il Veneto, che, con una popolazione di non troppo superiore all’Emilia Romagna, ha un quinto dei contagiati e un numero di decessi minore di ventitré volte rispetto alla Lombardia.
Tralasciamo le altre illazioni, comprensibili a livello giornalistico ma decisamente meno solide a livello di prove: tra queste, l’ipotesi che vari contagi extralombardi siano dovuti alla fuga di abitanti della Lombardia nelle regioni vicine, per rifugiarsi in seconde case e strutture più o meno amiche e accoglienti.
Resta il dato di una sproporzione enorme, a cui si è tentato di dare molte spiegazioni (per fortuna, nessuna di queste criminalizza gli stranieri residenti, in particolare la nutrita Chinatown di Milano…).
Sul perché di questi numeri sbilenchi, grazie ai quali la Lombardia spinge su l’asticella del contagio e dei lutti, ci sono molte spiegazioni, non necessariamente in contraddizione o in concorrenza tra loro.
Ma in non pochi casi si sta iniziando a puntare il dito sui sistemi sanitari.
Ad esempio, è un indizio flebile la questione dei tamponi, che in Lombardia sarebbero stati praticati tardi. In sé potrebbe non voler dire nulla, perché il tampone non cura e praticarlo in assenza di misure di contenimento obbligatorie sarebbe servito per lo più a fornire dati e a tentare qualche profilassi.
Semmai, il paragone tra Lombardia e regioni vicine dà altre risposte: laddove la Sanità pubblica è più forte (di sicuro in Veneto, seguito quasi a ruota dall’Emilia) il virus è stato arginato.
Già: di fronte a una pandemia così subdola non deve meravigliare che i sistemi sanitari siano al collasso, perché i grandi numeri possono inceppare i meccanismi più oliati senza alcuna difficoltà. Semmai ci si deve porre un’altra domanda: come mai i sistemi sanitari del Nord duro e puro sono arrivati alla saturazione in così poco tempo?
Per la seconda volta occorre dar ragione ad Aprile, che insiste nel paragone infranordista e abbassa un po’ i consueti toni rivendicazionisti: è la presenza della Sanità pubblica che ha fatto la differenza. Laddove questa è più forte, minori sono i contagi.
La pandemia, in altre parole, ha messo in evidenza i nodi irrisolti del nostro sistema sanitario: non è possibile (o è molto difficile) arginare emergenze di questo tipo con un meccanismo diviso e non ben coordinato. Il virus è uno e piuttosto veloce e resiliente, le Sanità sono venti, ognuna legata a logiche territoriali, in cui pesano non poco i rapporti, più o meno leciti e confessabili, tra le lobby locali e i potentati politici.
A inizio pandemia anche Marco Travaglio si è espresso con la solita forza e un po’ di lucidità in più del solito: occorre mettere in sicurezza la Sanità e restituirla allo Stato. Il sottinteso, per chi conosce il personaggio non è di difficile comprensione: solo lo Stato può potenziare la Sanità pubblica e rendere uniformi i servizi in tutto il territorio e quindi ridimensionare gli appetiti dei signori delle cliniche.
Non abbiamo nulla contro questi ultimi, intendiamoci. Ma di sicuro la Sanità privata, validissima nelle prestazioni di élite, che riguardano una percentuale esigua di popolazione, preziosa per la lungodegenza e insostituibile nel voluttuario (si pensi alla chirurgia estetica), non è attrezzata per le emergenze-urgenze, tra cui rientra, assieme al Pronto soccorso, la Terapia intensiva e la Rianimazione.
Ma l’aspetto sanitario è uno dei nervi scoperti di un problema più vasto: il sistema caotico delle autonomie locali, in particolare quelle regionali.
Il sistema Paese si è presentato alla prova del virus con una struttura disarticolata e poco reattiva, in cui i sindaci e i governatori si sono trovati in prima fila contro un problema più grande di loro.
Non è una giustificazione, un tana libera tutti per una classe politica arrivata alla frutta anche nella gestione dell’ordinario, soprattutto a Sud, che finora è stato graziato dal morbo solo per la sua marginalità geografica.
Tuttavia, fa una certa impressione assistere allo spettacolo di sindaci e governatori che cercano di eccedere in zelo amplificando gli aspetti restrittivi dei decreti governativi, dopo aver brancolato in attesa delle decisioni di Conte.
Nessuno invoca il famigerato centralismo, bestia nera di certo immaginario localista prevalso con il crollo della Prima Repubblica e impostosi come una specie di pensiero unico in tutte le forze politiche.
Però è vero che i governatori Rambo (come il simpaticissimo De Luca, a cui manca solo la caricatura con fez e orbace) e i sindaci sceriffo (come quello di Messina, che ha tentato di tener bloccati i suoi corregionali a Reggio Calabria) non sono una soluzione, ma una parte, forse neppure la più acuta, del problema.
C’è da scommettere, invece, che la risposta di Francia e Germania, le nostre sorelle-coltello della Ue, sarà più pronta. E non perché le loro Sanità siano qualitativamente migliori della nostra, ma solo perché i loro ordinamenti costituzionali sono meno frastagliati e quindi più compatti e reattivi. Lo è di sicuro il sistema francese, che è il più accentrato d’Europa. Ma lo è pure quello tedesco che, nonostante la struttura federale dello Stato, è in grado di imbrigliare con più efficacia le proprie autonomie.
Fin qui la lezione, che stiamo subendo in maniera piuttosto pesante. Per trarne davvero partito, occorrerebbe smettere di confondere il potere di prossimità con la democrazia e agire di conseguenza. In altre parole, iniziare a potare come si deve l’alberello delle autonomie locali, che nel frattempo è diventato una selva e riportare lo Stato dove serve.
Un programma minimo, ma che, passata la buriana, è ineludibile.
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