Foibe: gli italiani? Una goccia in un mare di sangue
Secondo le stime ufficiali i nostri connazionali morti per mano dei titini oscillano tra i 10mila e i 23mila. Una piccola voce nella contabilità macabra del conflitto e delle successive repressioni jugoslave, che arriverebbe a un saldo di 2 milioni e 130mila morti. Eppure l’esercito italiano fu l’attore bellico meno feroce nello scenario balcanico…
Partiamo subito con una cifra, che dovrebbe togliere ogni dubbio su quel che accadde in Jugoslavia, durante e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale: 1.072.000 mila morti, tra le popolazioni dell’ex Regno d’Italia e dell’ex regno dei Karageogervic.
Una cifra al netto di ciò che avvenne dopo il luglio del 1944, quando il Partito comunista jugoslavo fu riconosciuto governo legale.
Di questo milione e 72mila morti, una fetta non piccola è da attribuirsi ai partigiani di Tito: oscilla, secondo le varie fonti, tra 50mila e 150mila persone e non è improbabile che la cifra reale si aggiri attorno a 100mila.
Questi numeri non sono una nostra invenzione né provengono da fonti revisioniste. Li riporta, con un’analisi approfondita, il politologo americano Rudolph J. Rummell nel suo classico Stati Assassini (Rubbettino, Soveria Mannelli 2005).
Quel che è avvenuto dopo, sempre stando a quanto riporta Rummell, sarebbe peggio: i titini, nei dieci mesi compresi tra la presa del potere e la fine della guerra, avrebbero liquidato tra i 350mila e i 750mila oppositori, reali e potenziali, tra serbi, croati e sloveni.
La somma finale, calcolata dal politologo statunitense, è mostruosa: circa 2.130.000 morti in tutto, provocati dalla guerra civile che si sovrappose a quella mondiale e dal regime comunista.
Tutto questo in un Paese, il Regno di Jugoslavia, che si era affacciato al conflitto con una popolazione massima di 13.934.039 abitanti, raggiunta nel 1931.
È doveroso dire che questi dati possono, al massimo, fornire suggestioni.
Infatti, un’analisi attenta potrebbe rivelare l’impatto della mattanza sulla crescita demografica della successiva Repubblica di Jugoslavia (che includeva le zone strappate all’Italia nel 1947), arrivata a poco meno di 24 milioni nel 1991, alla vigilia della secessione slovena.
E gli italiani? I numeri sono forti, sebbene nel contesto quasi svaporino: le cifre vanno da 10mila a 23mila morti, tra esecuzioni sommarie, casualties (morti dovute ai contraccolpi delle operazioni militari, alle cattive condizioni di vita e di detenzione) e infoibamenti, che furono, come hanno tramandato molti storici, la forma più violenta e odiosa di esecuzione sommaria.
Prima di procedere oltre, è opportuno continuare in questa contabilità macabra.
Innanzitutto, le cifre fornite da Rummell per il periodo bellico (cioè 1.072.000 caduti) sono simili a quelle riportate da altri studiosi.
A meno di dieci anni dalla guerra, gli americani Paul Mayers e Arthur Campbell (The population of Yugoslavia, Washington 1954) indicano in 1.067.000 il numero delle vittime. Un po’ più sostenuta la cifra del demografo sloveno Dusan Breznik: 1.100.000 morti. Un po’ al ribasso, invece, i numeri del serbo Bogoljub Kocevic: 1.014.000 caduti. Il croato Vladimir Zerjavic (Jugoslavija-manipulacjie zrtvama drugog svjetskog, Zagabria 1988) rialza la somma a 1.027.000 caduti.
Cifre iperboliche? Certo, ma trovano comunque un’autorevole pezza d’appoggio nei dati della Commissione del Senato Usa sui crimini di guerra nella Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale. Giusto per fare un esempio, secondo i senatori americani i croati avrebbero ucciso in quegli anni tra i 300mila e i 500mila serbi.
Va da sé che questi dati, crudi e piuttosto disaggregati, avrebbero bisogno di un’analisi qualitativa perché generino qualche conclusione politica.
Al netto di tutto, ci si può limitare a dire una cosa: non sono i dati di una guerra normale o classica, in cui si fronteggiano le forze armate e le popolazioni civili subiscono soprattutto i contraccolpi dei combattimenti veri e propri, con numeri più o meno grandi.
Questi numeri indicano la saldatura di più tipi di conflitto: quello militare in senso stretto (che in realtà durò pochissimo, data la palese disparità delle forze in campo, e si risolse in una lunga occupazione militare), la guerra partigiana (che senz’altro coinvolse di più le popolazioni, essendo una guerra asimmetrica), quella civile (che fu il risultato di tensioni etniche preesistenti di gran lunga alla Guerra mondiale tra le popolazioni slave, tra queste e gli italiani e gli albanesi) e infine la guerra rivoluzionaria (che operò una sintesi feroce tra le altre tre).
Un tutti contro tutti che si risolse in una carneficina terribile, operata dalle parti in lotta dapprima appoggiandosi alle forze di occupazione (per fare un esempio, gli ustascia croati e i domobranci sloveni incrudelirono con le etnie avversarie, soprattutto i serbi, fidando sulla protezione delle truppe italiane e tedesche) poi, una volta sconfitte le forze dell’Asse, con l’avallo dei vincitori (ne è un esempio il paradossale appoggio britannico a Tito, che aveva dalla sua anche l’Urss).
Veniamo al comportamento alle truppe italiane. Secondo un luogo comune radicato a lungo nella storiografia, di parte e ufficiale, la brutale pulizia etnica titina sarebbe stata la reazione alle asserite atrocità del fascismo e del Regio Esercito.
È così? I numeri sono piuttosto alti: 8.111 secondo la Commissione d’inchiesta americana. Un comportamento eccessivo rispetto ai rapporti standard delle truppe italiane con le popolazioni durante il conflitto e che è senz’altro indice di un comportamento feroce e senza precedenti nella tradizione militare nazionale.
Giusto per fare un paragone, alle truppe tedesche furono attribuite in Italia 1.087 vittime civili nel biennio 1943-45. Questo dato non è solo storico ma anche giudiziario, visto che fu uno dei capi d’accusa al feldmaresciallo Albert Kesserling nel processo di Venezia.
Evidentemente, i Balcani furono teatri bellici particolari.
Infatti, sempre per restare ai paragoni, il comportamento del Regio Esercito – che di sicuro si lasciò andare a eccessi e violò senz’altro più volte le norme del Diritto di guerra regolarmente sottoscritte dal Regno d’Italia – non arrivò mai agli estremi della Wehermacht, che raggiunse con poche azioni la quantità complessiva dei morti per mano italiana.
Al riguardo, lo storico Filippo Focardi ricorda nel suo Il cattivo tedesco e il bravo italiano (Laterza, Bari 2016) le ferocissime ritorsioni condotte dall’esercito germanico in Serbia, per la precisione a Kraljevo – dove si calcolano tra i 4 e i 5mila civili uccisi dai tedeschi – e a Kragujevac – dove le vittime furono 2.300.
Il tutto in applicazione dei bandi militari emanati dal generale Franz Bohme, che prevedevano la ritorsione di 100 civili per un militare tedesco ucciso e di 50 per un militare ferito. Una forma di decimazione abnorme, che tuttavia non fu l’unico caso nella Seconda guerra mondiale: si pensi, sempre per continuare nei paragoni, che l’Esercito Usa emanò un bando in Germania che prevedeva una ritorsione di 200 civili per ogni americano ucciso.
I militari italiani non usarono di sicuro i guanti bianchi, ma probabilmente la loro era l’unica risposta possibile a una guerriglia feroce, in cui i partigiani si diedero ad atrocità ed efferatezze puntualmente riportate anche dagli storici antifascisti: prigionieri massacrati, torturati, mutilati ed evirati, imboscate anche a danno di civili (inclusi gli slavi accusati di collaborazionismo) e atti che definire terroristici è davvero poco.
Si può dire che non ci fu equivalente in nessuna resistenza europea.
Ma anche nelle misure concentrazionarie il regime titino superò in peggio sia i nazifascisti sia i sovietici: secondo un calcolo avanzato da vari storici ex jugoslavi la mortalità nei campi di concentramento comunisti raggiunse picchi del 98%.
Il che non si può dire per il famigerato campo italiano di Arbe, dove la mortalità tra i prigionieri raggiunse il 19%, né per quelli tedeschi, dove oscillava attorno al 6%. Va da sé che si parla, in questo caso, di campi di prigionia e non di sterminio.
A voler tirare le somme, si possono affermare due cose.
La prima: gli italiani furono una goccia nel mare di sangue dei massacri balcanici. Quindi i profughi giuliano-dalmati piangono le stesse cose che hanno pianto per decenni molti serbi, croati e sloveni (a voler tacere delle minoranze ungherese e albanese) colpevoli di ostilità o indifferenza al regime titino. E non è un caso che questo carico di odio, a lungo represso, sia riesploso nella sanguinosissima guerra civile degli anni ’90.
Seconda cosa: l’esercito italiano commise in ogni caso meno efferatezze degli altri eserciti d’occupazione e degli altri attori bellici della ex Jugoslavia e rispettò decisamente di più le norme del Diritto bellico. In compenso, i civili italiani subirono un trattamento comunque abnorme e sproporzionato anche in una logica di ritorsione.
Il carico di odio etnico che si trascinava da secoli nei Balcani aveva conferito alla politica, e quindi al modo di condurre la guerra, una postura criminale, che raggiunse il vertice e la sintesi nella politica titina, che fu una vera e propria geopolitica sanguinaria, attuata sotto la copertura della comunità internazionale dell’epoca.
Una copertura bipartisan, in cui i sovietici si alternarono ai britannici per interessi geopolitici più o meno confessabili e motivati.
Ma di fronte alle crude verità dei numeri occorre l’onestà di accantonare certe letture, logore e fuorvianti, e rendere giustizia a tutte le vittime dell’immane carneficina. Restituire la storia agli storici: un programma minimo di civiltà.
13,772 total views, 8 views today
Comments