Foibe, le prime vittime furono gli antifascisti
Forse il capitolo più imbarazzante della storia di certa Resistenza: i titini passarono per le armi e infoibarono molti oppositori del regime mussoliniano. Ciò contribuisce a dimostrare una cosa: più che lotta al fascismo, Tito praticò una politica annessionista a dir poco brutale…
Alcuni hanno cercato e ancora tentano di presentare le foibe – con l’annesso sterminio di molte migliaia di persone e una gigantesca operazione di pulizia etnica nelle regioni di Venezia Giulia e Dalmazia – come una presunta reazione o vendetta compiuta sui fascisti ad opera dei partigiani slavi.
Un’ipotesi dura a morire, ma carica di omissioni ed incongruenze.
Essa non spiega assolutamente perché 350.000 italiani siano scappati dai territori occupati dagli slavi, stante il fatto che certamente non erano tutti fascisti.
Inoltre essa è contraddetta dal fatto, inoppugnabile, che erano già avvenute ad opera dei nazionalisti slavi almeno due grandi operazioni di pulizia etnica ai danni degli italiani: la prima nel periodo 1866-1918 in Venezia Giulia ed in Dalmazia, la seconda nel primo dopoguerra in Dalmazia.
Le rivendicazioni slave su queste regioni ed i correlati piani di cacciata degli italiani erano state esplicitamente formulati sin dal secolo XIX e ripetuti di generazione in generazione dai nazionalisti sloveni, croati e jugoslavisti.
La mole impressionante di dati sulle persecuzioni contro gli italiani avvenute nel 1866-1918, mezzo secolo prima del sorgere del fascismo (slavizzazione della toponomastica, dell’onomastica, della liturgia, delle scuole, della polizia e della magistratura, violenza endemica contro gli italiani, espulsione di massa di italiani, favoritismo dell’immigrazione slava etc.) dimostra come sia possibile comprendere le foibe soltanto collocandole in una prospettiva storica allargata a ciò che era avvenuto anteriormente al 1922. In ogni caso, è facile provare come le vittime delle foibe fossero solo in piccola parte fascisti, il che taglia la testa al toro e confuta l’ipotesi della vendetta antifascista.
Verso la fine dell’aprile 1945, le forze degli slavi e quelle anglo-americane procedevano in direzione di Trieste (la cosiddetta Corsa per Trieste), poiché controllare questa città significa acquisire una posizione chiave in una regione strategicamente importante.
Il 28 aprile a Trieste, in Piazza Oberdan, Unità d’Italia e nelle periferie, si ebbero primi scontri tra italiani ed i tedeschi che, verso sera, oramai accerchiati furono costretti ad abbandonare il faro della Vittoria e la Capitaneria di porto, poi anche la Prefettura ed il Municipio ed infine rinchiudersi nel Castello di San Giusto e nel palazzo di Giustizia, mentre il Cln proclamava l’insurrezione generale.
Soltanto il 30 aprile le prime avanguardie jugoslave penetrarono nella periferia triestina, quando ormai i residui reparti tedeschi erano già circondati. Il primo maggio i partigiani slavi entrarono in città in forze, preoccupandosi di disarmare le forze italiane del Cln, e senza riuscire, invece, ad ottenere alcuna resa da parte dei tedeschi, trinceratisi nelle postazioni suddette.
Le avanguardie jugoslave, giunte a Trieste dopo che i tedeschi erano già stati costretti a rintanarsi in pochi capisaldi ed in cui rimasero sino all’arrivo delle divisioni neozelandesi, si preoccuparono non di combattere i nazi-fascisti come voleva la loro propaganda, bensì d’eliminare ogni potenziale opposizione italiana, a partire dai membri del Cln italiano. Furono arrestate migliaia di persone dai membri della Difesa popolare o Guardia del popolo, attraverso liste di proscrizione preparate in precedenza. Altre ancora furono incarcerate perché avevano affermato l’italianità di Trieste e della Venezia Giulia, laddove i titini ne sostenevano quella slava: Trst je nas, come dicono ancora oggi i nazionalisti sloveni, ossia Trieste è nostra. Questo motto, fatto proprio dai partigiani del dittatore Tito, risaliva in realtà alla metà del XIX secolo ed all’aggressività nazionalistica slava contro la maggioranza italiana, fomentata ed appoggiata dalle autorità asburgiche.
Gli arresti compiuti dagli jugoslavi ed i massacri colpirono infatti tutti coloro che erano ritenuti in grado di opporsi in qualche modo alle pretese annessionistiche dei titini. Costoro erano quasi sempre antifascisti, essendo i fascisti, se non morti, comunque ormai del tutto privi di potere.
Scamparono fortunosamente alla violenza jugoslava due storici antifascisti di Trieste: Carlo Schiffrer, importante storico che ha documentato anche le persecuzioni italofobe durante il periodo asburgico; Ercole Miani, irredentista mazziniano, decorato con due medaglie d’argento e due medaglie di bronzo, proposta alla medaglia d’oro, esponente del Partito d’Azione, membro del Cln, comandante delle formazioni partigiane italiane giuliane di Giustizia e Libertà, che aveva respinto le proposte del prefetto triestino Bruno Coceani di creare un fronte unico italiano contro gli slavi.
Un intellettuale antifascista di Grado, Biagio Marin, rappresentante del Partito liberale nel Cln, affermò quanto segue sul comportamento dei partigiani:
«I fascisti più noti non vennero molestati e se arrestati furono rilasciati mentre invece tutti i possibili poli di aggregazione antifascista ma di sentimenti italiani o autonomisti (come a Fiume) furono decapitati in modo così rapido e capillare da escludere ogni possibile casualità».
Il professor Elio Apih, nella sua opera Trieste. La storia politica e sociale, riporta un brano proveniente dal documento FO 371/48953, r. 1085. Si tratta di un documento ufficiale inglese, che fu raccolto dal Servizio Segreto inglese nell’immediato dopoguerra e poi trasmesso al Ministero degli Esteri:
«È stato stabilito, al di là ogni dubbio, che durante l’occupazione jugoslava di Trieste e del territorio, molte migliaia di persone sono state gettate nelle foibe locali. A Trieste tutti i membri della Questura, della Pubblica Sicurezza, della Guardia di Finanza, dei Carabinieri, della Guardia Civica e combattenti patrioti del CLN che sono stati presi dagli jugoslavi, sono stati arrestati e gettati nelle foibe».
Questi massacri di cui furono vittime i membri del Cln triestino, oltre al personale di Carabinieri e Guardie di finanza, sono oltretutto confermati da altri documenti ufficiali, questa volta provenienti dall’Archivio di Stato della Slovenia.
A Fiume, città che era da sempre a netta maggioranza italiana, le stragi colpirono indistintamente la sua classe dirigente, in netta prevalenza estranea al fascismo. Furono deportati nei gulag titini circa un centinaio di membri delle forze dell’ordine.
I vertici del vecchio Partito autonomista fiumano e Movimento autonomista liburnico, formazioni politiche antifasciste assai radicate in città, furono annientati nel giro di poche ore, non appena i partigiani slavi irruppero in città.
Furono così uccisi, fra gli altri, Giovanni Rubinich (fondatore del Movimento autonomista liburnico e teorico di uno Stato fiumano unito in forma federale all’Italia e rispettoso dei diritti di tutti i gruppi etnici), Giuseppe Sincich, Mario Skull, Giovanni Baucer, Mario De Hajnal, Angelo Adam (ebreo scampato a Dachau e sparito per sempre o in una foiba o in un gulag, assieme ai suoi familiari) e molti altri ancora.
Mario Blasich, altro esponente del Paf, era malato da anni e venne strozzato dai partigiani nel suo stesso letto. Nel giro di un paio d’anni, dal 1945 al 1947 a Fiume furono trucidati quasi mille italiani.
Persino il Cln istriano riconobbe il carattere di pulizia etnica delle foibe, in un opuscolo apparso dopo la guerra ed intitolato Foibe, la tragedia dell’Istria:
«In venti giorni essi inflissero agli italiani sofferenze e lutti indescrivibili più gravi di quanti ne abbiano sopportati gli slavi dell’Istria per colpa del fascismo in venti anni […] Fu un piano preordinato, quindi, non insurrezionale di classe sfruttata, non furore di popolo, non sete di giustizia o di vendetta a decretare la morte degli Istriani».
Sarebbe superfluo ricordare lo sterminio dei partigiani della brigata Osoppo, cattolici, azionisti e monarchici, avvenuto a Porzus nel Friuli già nel febbraio del 1945 per mano di partigiani comunisti.
I titini s’accanirono con maggior determinazione contro gli antifascisti italiani, piuttosto che contro noti esponenti fascisti, poiché gli jugoslavi intendevano spacciare l’idea del carattere fascista di tutti gli italiani, per precise finalità politiche legate alle conferenze di pace: gli antifascisti italiani della Venezia Giulia, Fiume, Dalmazia andavano quindi fisicamente distrutti.
[C. Schifferer, Aspetti nazionali e internazionali della resistenza triestina, in «Annali della Facoltà di Lettere e filosofia», n. 2., 1965-1966, Trieste 1965; B. C. Novack, Trieste, 1941-1954, la lotta politica, etnica e ideologica, Milano 1973; E. Apih, La storia politica e sociale, in Trieste, a cura di E. Apih, Bari 1988; R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia. Saggi sulla questione di Trieste (1945 – 1954), Udine 1989, G. Cox, La corsa per Trieste, Gorizia 2005].
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