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Troppa grazia San Gennaro, Repubblica "carezza" i neoborbonici

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Il Venerdì di Repubblica lancia un curioso dossier sulla “galassia” sudista che ha promosso la “giornata della memoria” dedicata alle presunte vittime meridionali del Risorgimento. Le uniche stoccate sono rivolte ai grillini, autori delle mozioni presentate in varie istituzioni del Mezzogiorno, mentre ai big è riservato al massimo qualche pizzicotto. Un’operazione ambigua e intempestiva, dettata da ragioni editoriali e politiche, in cui l’informazione c’entra poco…

Si può seguire (e in buona misura parteciparvi) un dibattito per oltre due mesi e poi non arrivare sul pezzo? Repubblica può.

Si può predicare (e di solito praticarlo con coerenza) un modello di giornalismo culturale, quello che un big come Alberto Papuzzi ha definito illuminista, e poi smentirlo quando fa comodo? Repubblica può. E purtroppo a volte ci riesce.

Si può graticolare il giornalista che lavora per certa concorrenza, percepita nemica e poi dare un pulpito quello che, pur lavorando per la concorrenza, è un po’ meno nemico? Repubblica lo fa.

Tutto questo è capitato nel dossier dell’ultimo numero de il Venerdì di Repubblica, l’insertone dotto che una volta era un must per il lettore di cultura. Lo speciale in questione, dedicato ai movimenti (e relativi fremiti) neoborbonici, è composto da quattro pezzi, che gareggiano a chi fa peggio.

Si inizia con un reportage piuttosto sciatto di Angelo Carotenuto, in cui tutto si mescola come in quei tritacarne che una volta si usavano per i wurstel: le sciarpe, le bandiere e la gadgetistica nostalgiche, le dichiarazioni dei neoborbonici, quelle degli esercenti del centro (borbonico anch’esso?) di Napoli e quelle di storici seri come Renata De Lorenzo, autrice alcuni anni fa del bel Borbonia Felix e presidente della Società napoletana di storia patria, e Marcello Marmo. Più il cameo di Eugenio Bennato, che prende le distanze ma non troppo dai neoborb e spiega che i suoi briganti che se ne fottevano d’o rre erano più insorgenti e anarcoidi che reazionari, giusto per non guastarsela coi lettori, notoriamente sinistrorsi, di Repubblica.

Un bailamme dal sapore televisivo, viziato dall’esigenza di contenere in tre facciate patinate una questione su cui sono stati spesi fiumi d’inchiostro per due mesi e su cui si presuppone che i lettori siano già informati.

In tutto questo, Carotenuto omette di dire che l’unica Regione che ha approvato la mozione dei grillini senza troppi forse è stata la Puglia, che la proposta grillina in Calabria non è quasi arrivata, che a Napoli de Magistris ha respinto al mittente la proposta e che la mozione non ha fatto sostanziali passi in avanti nel resto del Sud, Campania inclusa.

Ci sta la curiosità per piccoli gruppi, più rumorosi che consistenti. Ci sta il dovere del giornalista di dare voce a chi non ne ha troppa. Ci sta l’esigenza di un reportage.

Ma a una prima lettura sembra evidente che il report de il Venerdì non miri tanto a spiegare la situazione, quanto a sdoganarla e a darle un indirizzo tutto particolare.

Infatti, subito dopo il pezzone di Carotenuto arriva l’articolo peggiore del poker. Non, come sarebbe facile prevedere, l’intervista a Pino Aprile, ma l’analisi di Sergio Rizzo. Il numero due di Repubblica, già sodale di Gianantonio Stella nella fortunata crociata editoriale contro le caste (ad eccezione, si capisce, di quella dei media), si esibisce in un cerchiobottismo raro, in cui non si sa se prevalga la disinformazione o la malafede.

Non che si debba dir male a tutti i costi del Regno delle Due Sicilie, come fa Rizzo sin dal titolo (Quel reame felice che esiste soltanto nelle bufale), ci mancherebbe. Però nel momento in cui si sciorinano i dati che inchiodano il regime borbonico occorrerebbe quantomeno citare le fonti.

Dunque, l’ex compare di Stella smentisce i primati tanto cari ai neoborb: parla di analfabetismo ad oltre l’80%, di infrastrutture minime, di regime fiscale pesante ecc. Gli stessi dati, per capirci, utilizzati (e divulgati) da storici professionisti come Salvatore Lupo e Paolo Macry o da storici dell’economia come Emanuele Felice.

Perché non citarli? Delle due l’una: o Rizzo ha fonti autonome oppure non riconosce il debito intellettuale. Ma, a leggere il resto del pezzo, sorge qualche sospetto: infatti, nel momento in cui si occupa di economia, il vicedirettore di Repubblica bolla senza pietà lo Stato italiano, colpevole di aver lasciato regredire il Sud.

Se, viceversa, avesse citato le fonti, Rizzo avrebbe dovuto dire almeno che i tre autori concordano su un dato, cioè che la forbice tra Nord e Sud si sia ridotta negli anni del boom: il periodo in cui le politiche meridionalistiche sono arrivate al massimo grazie all’accentramento dello Stato. Ovvero grazie allo Stato dotato delle strutture sabaude smantellate, a partire dagli anni ’70, con l’istituzione delle autonomie regionali. Ciò avrebbe creato non pochi guai al Nostro, che sarebbe stato costretto a smentire i tre storici (e gli altri, non pochi, che sostengono tesi simili) o a smentire sé stesso. Perché tanta ambiguità?

L’intervista, a dire il vero un po’ seduta, di Luigi Irdì a Pino Aprile semina altri dubbi. Il primo: perché i virgolettati anziché il classico domanda e risposta? Certo, qui e lì, l’intervistatore tira pizzicotti e semina dubbi, ad esempio tirando in ballo il classico piagnisteo meridionale, anche piuttosto a sproposito, perché, semmai, il problema di Aprile è l’aggressività, l’esatto contrario del piagnisteo.

Il secondo: visto che le tesi del giornalista pugliese sono più che note e non devono essere divulgate oltre, perché non approfittare dell’intervista per creare una dialettica vera (a cui un giornalista degno del titolo non dovrebbe sottrarsi)? Irdì si limita agli incisi ma nella sostanza lascia passare tutto il discorso apriliano a cui finisce, anzi, per fare pubblicità.

Il pezzo conclusivo, il commento di Giovanni De Luna, non chiarisce l’operazione. Anzi. De Luna, che è l’unico storico, attacca a testa bassa i grillini, autori delle mozioni sulla giornata della memoria delle presunte vittime del Risorgimento, accusandoli di assecondare gli umori reazionari di certa subcultura meridionale, la stessa che fece vincere al Sud la Monarchia nel referendum del’46 e che spinse le plebi sette e ottocentesche a sposare la causa sanfedista. Un po’ troppo per un semplice articolo giornalistico, troppo poco da parte di uno storico di vaglia come De Luna.

Siamo di fronte a un’iniziativa editoriale quantomeno ambigua, di cui si possono cogliere due aspetti preoccupanti.

Il primo è di natura economico-editoriale ed è il tentativo di sottrarre il dibattito agli storici per riconsegnarlo ai giornalisti. E in ciò non ci sarebbe nulla di male, tranne che per un dettaglio non proprio irrilevante: i grandi divulgatori alla Montanelli, comunque rispettosi di un dibattito culturale che prescindeva da loro, o non ci sono più oppure, per raggiunti limiti di età (è il caso di Arrigo Petacco) possono contribuire poco. Al loro posto ci sono, al massimo, dei mestieranti come Paolo Mieli e Giampaolo Pansa. Questo finché si tratta di divulgare, anche cose scritte meglio da altri (come nel caso di Pansa, che ha ripreso il revisionismo di Giorgio Pisanò, depurandolo dalle premesse e dalle conseguenze politiche). Ma sorge il sospetto che l’editoria mainstream, di cui fa parte a pieno titolo anche il gruppo editoriale di Repubblica, non veda di buon occhio la recente invasione di campo degli storici e preferisca la narrazione rozza e deformante degli Aprile e dei Del Boca, che almeno fanno girare le rotative.

Il secondo è di natura politica: emerge dal dossier solo il tentativo di demolire il Movimento 5 Stelle, mentre i neoborbonici sono lasciati in pace, trattati al più da fenomeno folcloristico. Possibile che Carotenuto abbia preso per buoni gli indici di consenso virtuali esibiti dai neoborbonici (gli 11 milioni di accessi ai loro siti web e la mailing list da 30mila contatti, lo stesso livello di un sito porno di medio successo) senza porsi qualche domanda sulla reale consistenza del movimento? Possibile che un fenomeno culturale virulento e aggressivo come quello derivato dalla narrazione apriliana, non priva di suggestioni reazionarie e pericolosa per chi dovrebbe difendere i valori civili derivati dall’illuminismo, sia considerato tutto sommato con una bonomia che di solito Repubblica non riserva ad altri (ad esempio ai gruppi di destra o di sinistra radicale)?

Troppa grazia, San Gennaro

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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