E l’arte diventa ambientalista. Parla Antonio Fraddosio
L’artista pugliese racconta il significato della sua installazione “Le tute e l’acciaio” dedicata al disastro dell’Ilva. L’opera fa parte di una serie dal titolo eloquente: “Quello che resta dello sviluppo”. E, a proposito di sviluppo, spiega ancora lo scultore: «Non è sinonimo di progresso, ma, come affermava Pasolini, spesso è l’opposto»
Ho conosciuto Antonio Fraddosio alcuni anni fa, quando, dopo aver scritto una recensione dedicata ai suoi lavori Carte Bianche decisi di incontrare a Roma lui e il suo curatore Gabriele Simongini. Da quell’incontro è nata una stima reciproca e per me un’occasione in più di conoscere da vicino un artista meridionale con idee nuove dedicate all’etica dell’ambiente.
I suoi occhi scuri desiderano raccontare attraverso le opere il rispetto per l’uomo e per la natura. Questi sentimenti di amore per l’ambiente saltano subito all’occhio quando si vedono i suoi lavori. Recentemente Fradddosio ha fatto parlare di se con una installazione intitolata Le tute e l’acciaio, dedicata al grave problema ambientale sorto attorno al’Ilva di Taranto. L’opera è stata presentata fino al 5 maggio scorso, (con un bel catalogo curato da Simongini), a Roma nella Galleria d’Arte Moderna.
Per entrare nel vivo della sua poetica, possiamo senz’altro immaginare che l’esser nato a Barletta nel 1951, in Puglia, una terra baciata dal sole e bagnata da un bellissimo mare, sia stato il motivo che lo hanno spinto a denunciare il disastro ambientale che l’Ilva sta provocando in tutto il territorio. Solo un cuore grande e la capacità profetica di un artista può ispirare non solo i comuni cittadini ma anche i decisori politici a risolvere questi gravissimi problemi.
La presentazione della sua opera astratta e concettuale al grande pubblico del web è stimolante perché consente a tutti di immaginare dei luoghi o delle cose che sono frutto della nostra fantasia. Ci racconta com’è nato il desiderio di creare opere che denunciano l’inquinamento ambientale?
La crisi dell’ambiente è un problema grave e complesso che da tempo si sta evidenziando ma che negli ultimi anni ha dato luogo a manifestazioni veramente critiche. La complessità del problema mi ha da tempo impegnato in un’attenta analisi non solo sugli effetti ma, anche, soprattutto, sulle cause. È fuor di dubbio, ormai, anche per concorde affermazione di scienziati, che la crisi ambientale è opera del modo in cui si evolve lo sviluppo globale. La mia ultima opera è un installazione dedicata ai gravi effetti che il degrado ambientale provoca al territorio e alle persone. Sono arrivato a questi miei ultimi lavori dopo una serie di cicli di opere che osservano l’evoluzione complessiva degli ultimi decenni. Quest’ultimo ciclo, di cui Le tute e l’acciaio fa parte, si intitola Quello che resta dello sviluppo. Dello sviluppo che non è sinonimo di progresso. Anzi, come affermava Pier Paolo Pasolini, è il suo opposto.
Difendere l’ambiente è un dovere morale. Ricordiamo che tra gli anni ’50 e ’60 anche i poeti Allen Ginsberg e Gary Snyder denunciarono l’inquinamento con le loro opere. Anche la Beat Generation presentò forme di rivoluzioni ecologiche ispirate a una visione spirituale. In Lei quanto c’è di spirituale nei suoi lavori?
Ritengo che l’arte e ogni manifestazione creativa dell’intelletto non possano prescindere da valori spirituali. Infatti i momenti emotivi dell’artista si manifestano attraverso la sua creazione e vengono recepiti dalla sensibilità dell’osservatore. È un collegamento tra anime.
La sua arte si avvicina molto a un tipo di filosofia ambientale, tipica del mondo nordico e anglosassone, infatti, la fotografa britannica Mandy Barker con i suoi scatti denuncia l’inquinamento della plastica. Lei quanto si sente vicino a questa filosofia?
Il mio lavoro non è semplicemente descrittivo e non si limita a denunciare il degrado ambientale in sé ma vuole indicarne le cause originarie. In molte mie opere come quelle appartenenti al ciclo La costruzione della distruzione, evidenzio il concetto di distruzione costruita: l’immagine caotica dell’opera, (materie spezzate, incastrate, tese al limite di rottura) è il frutto di un’attenta composizione. E riflette il fatto che la reale e sistematica distruzione dell’ambiente è realizzata attraverso una precisa e attenta strategia tesa solo al raggiungimento dei massimi profitti economici.
Le sue opere di notevole dimensioni inglobano il dramma dell’uomo, che imprigionato dalle lobby di potere, giorno dopo giorno lo uccidono?
Certamente. Nel 2011 presentai alla Biennale di Venezia un’opera dal titolo La bandiera nera nella gabbia sospesa. Si tratta di una grande bandiera lacerata e pietrificata nel suo sventolare. È di colore nero, che simboleggia la più alta utopica forma di democrazia: l’anarchia. Quel vessillo non sventola più ed è lacerato, chiuso in una vera e propria gabbia sospesa che, attraverso una serie di ingranaggi, ne consente pochi rigidi movimenti. Al contrario, una bandiera dovrebbe sventolare morbida, libera. In fondo il potere fa proprio questo: distrugge lentamente l’essenza stessa dell’essere umano.
Le sue idee trasformate in opere d’arte sono comprese in Italia? O sono più comprese all’estero?
Le mie sono opere di arte contemporanea e chi le guarda deve far seguire all’eventuale impatto emotivo un’attenzione ai significati che sono universali e quindi trattano temi comuni a tutti.
Cosa vuol dire per lei creare un’opera?
Mi considero un artista militante: per me creare un’opera d’arte in questo momento storico, è soprattutto un atto politico di reazione a un potere economico-finanziario globalizzato che ci costringe sempre di più a una condizione servile. Mi piace, visto che lei ha citato la beat generation, ricordare le parole del poeta italo americano: Lawrence Ferlinghetti, per me uno dei più grandi. Parlando del significato della poesia, in una sua raccolta intitolata La poesia come arte che insorge, scrive: «Ci sono tre tipi di poesia. La poesia sdraiata che accetta lo status quo. La poesia seduta scritta dall’establishment che si lascia dettare le sue conclusioni a proprio vantaggio. La poesia in piedi, che è la poesia di impegno a volte grandioso a volte immane». Queste parole possono essere estese ad ogni forma di arte.
Cosa ricorda della Puglia quando l’Ilva non esisteva? Secondo lei fare per risvegliare un territorio afflitto da decine e decine di morti di tumore fra operai e no cosa dovrebbe fare lo Stato?
I miei ricordi di Taranto prima dell’Italsider sono netti, ancora vivi nella memoria. Taranto era una splendida città posata tra due mari e collegata alla terra da due ponti uno dei quali girevole. Immagini, colori e odori che da troppo tempo non esistono più. Era l’odore intenso del mare, era il colore di una terra ricca e verde ed era l’immagine di pescatori, di contadini, di una città di pietra dorata. Tutto questo non esiste più. Taranto è cresciuta solo intorno al polo siderurgico senza ordine, né progetto. I quartieri Tamburi e Paolo VI dove risiedono in prevalenza gli operai, sono stati costruiti a ridosso dell’impianto industriale e del cimitero. Una macabra coincidenza che rappresenta il lavoro, la vita privata e la morte. A Taranto tutto si mescola e a morire non sono solo gli operai ma anche i loro bambini, le loro famiglie. Bisogna dire due cose gravi: quello che sta succedendo a Taranto è un genocidio, che qualcuno ha definito una strage di futuro. Anche il territorio sta morendo contaminato dalla diossina. Un’ordinanza comunale da anni vieta il pascolo e la coltivazione nel raggio di venti chilometri dall’impianto. Che fare davanti a tanta distruzione? Uno scrittore tarantino, Alessandro Leogrande, sosteneva la necessità di de-suderurgizzare Taranto cominciando, intanto, ad utilizzare le tecnologie per ridurre le emissioni venefiche e riducendo progressivamente la produzione. Nel contempo, iniziare un opera di bonifica del territorio utilizzando tutta forza lavoro disponibile sottratta al siderurgico. Certamente un piano economicamente impegnativo ma assolutamente necessario. Oggi il siderurgico non è più italiano, si chiama Arcelormittal e fa capo a una società franco-indiana che sicuramente nell’arco di alcuni anni abbandonerà la produzione. Vorrei concludere dicendo che la responsabilità di quello che succede a Taranto è di tutte le forze politiche che hanno governato fino ad oggi che, dimentiche dei principi fondamentali della Costituzione sulla quale hanno giurato, hanno creato un mostro.
(a cura di Carmelita Brunetti)
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