Tra brigantaggio e mafia. La parabola del bandito Pugliese
Originario della Calabria e condannato all’ergastolo dalla Giustizia delle Due Sicilie, Angelo Pugliese evase dal carcere di Palermo e si diede alla macchia. Costituì una banda di briganti specializzata in abigeato e fu arrestato in Tunisia nel 1865. L’operazione verità dello storico Rosario Mangiameli smonta ancora una volta l’idea del banditismo sociale e traccia una continuità tra i briganti e la criminalità organizzata
Il brigantaggio meridionale era da molti secoli innervato a reti di potere che facevano capo a politici, latifondisti, ecclesiastici, in breve notabili e prominenti, i quali si servivano delle bande per arricchirsi, dominare le popolazioni, combattere i rivali per la supremazia nei vari paesi, fungere da loro guardie armate.
Ancora il brigantaggio postunitario presentò caratteristiche che lo avvicinavano fortemente al vecchio e ben studiato banditismo nobiliare, tipico delle aree segnate da un forte feudalesimo ed i cui le masnade brigantesche potevano essere direttamente guidate, o più spesso controllate, da feudatari locali che le adoperavano come loro piccoli eserciti privati.
Questa tipologia di banditismo fu largamente attestata nel Meridione per tutta l’era moderna e fu certamente correlata al radicamento eccezionale del sistema feudale al Sud. La fine formale della giurisdizione d’Antico regime avvenuta ad inizio Ottocento non mutò di molto le strutture sociali e culturali, quindi anche i meccanismi che conducevano ad una determinata forma di brigantaggio.
Un esempio di ciò è fornito dal capobrigante Angelo Pugliese, la cui figura è stata accuratamente studiata dallo storico Rosario Mangiameli in un suo saggio breve, costruito con il ricorso ad una ricchissima documentazione ed ad un ampio confronto con la storiografia specialistica.
Pugliese, un calabrese originario del Cosentino, era stato condannato dalla magistratura delle Due Sicilie all’ergastolo. Nel 1860 si trovava nelle carceri di Palermo, da cui poté evadere approfittando del disordine creatosi in città durante la battaglia fra i garibaldini e le forze regie. Dopo la fuga, egli divenne latitante nelle campagne siciliane e formò una sua banda di briganti, operante nella zona compresa fra Lercara, Prizzi e Alia, ma che aveva una rete di collusioni e di traffici illeciti che si estendevano sino all’Africa settentrionale. Angelo Pugliese fu arrestato nel 1865 proprio in Tunisia (naturalmente dalle autorità locali, prima di essere estradato in Italia).
Il gruppo di banditi operò al servizio di un’organizzazione più grande e complessa, la cui attività principale era l’abigeato, il furto di animali, esercitato su grande scala.
I briganti rubavano gli animali, che trovavano ricetto temporaneo nelle mandrie dei grandi proprietari, in cui potevano essere nascosti con facilità per qualche tempo. Successivamente, il bestiame rubato era trasferito a distanza nei mercati siciliani di altre province dell’isola, o addirittura rivenduto in Africa. Gli spostamenti avvenivano attraverso una rete di complicità che si estendeva in tutta la Sicilia: a nord est, in direzione del Messinese, a nord ovest verso Palermo ed il Trapanese, infine a sud in direzione dei porti per l’imbarco in Africa.
L’organizzazione delinquenziale aveva bisogno di amministratori di aziende agricole (i gabelloti) compiacenti, di uomini in grado di procurarsi bollette false e di alterare i marchi di proprietà, di guide che portassero il bestiame lungo tracciati sicuri, oltre che naturalmente di ladri di bestiame e rivenditori. Mentre le bande erano formate da briganti che condividevano la pratica dell’abigeato, le articolate strutture organizzative della rete d’appoggio si basavano anzitutto sulle amministrazioni degli enormi latifondi siciliani, che si servivano delle comitive brigantesche per il traffico d’animali rubati, garantirsi la sicurezza da rivali od altri ladroni etc. Le statistiche dei furti di bestiame provano che raramente erano colpite le mandrie dei grandi allevatori, che potevano fare affidamento su maggiori mezzi di protezione, legali ed illegali: i bersagli privilegiati erano i piccoli proprietari.
I referenti borghesi, ricchi o ricchissimi galantuomini, della banda Pugliese erano molti e potenti. In astratto, alcuni erano di convinzioni liberali ed unitarie, altri invece borbonici, ma queste caratterizzazioni rispecchiavano in realtà contrasti di fazione e d’interesse a livello locale e non adesioni ideali, tanto che fra i liberali ve ne erano taluni che erano stati sino al 1860 borbonici.
I latifondisti controllavano localmente sia lo Stato sia l’antistato. Da una parte riuscivano a far eleggere sindaci propri uomini ed a reclutare uomini adatti per la guardia nazionale, intessendo inoltre tele di potere con la magistratura, la Chiesa etc., dall’altra si servivano di loro proprie guardie private, i famosi campieri, e dei briganti. Fra gli uomini con cui la banda Pugliese era in rapporti si trovavano anche molti aristocratici, amministratori di latifondi, commercianti, figure pubbliche (sindaci, comandanti della Guardia nazionale, un cassiere comunale, un giudice etc.) e naturalmente una schiera di grossi proprietari terrieri. Lo storico Mangiameli descrive minutamente le attività di un lungo elenco di borghesi, talvolta autentici casati di signorotti di provincia, intenti a fare soldi con metodi sia leciti sia illeciti.
Il capobanda dopo la sua evasione poté contare immediatamente su appoggi di peso nella criminalità siciliana, grazie all’amicizia che aveva stretto in carcere con un Giammona, membro di una importante famiglia mafiosa palermitana. Un’altra cosca con cui era in rapporti era quella dei Cernigliaro.
La banda Pugliese agì quindi in un contesto in cui si mescolavano brigantaggio in senso proprio, attività malavitose di tipo mafioso, grossi interessi economici e lotte di potere all’interno delle classi proprietarie. Difatti la distruzione della comitiva avvenne grazie ad una grande operazione contro il brigantaggio e la criminalità organizzata che si avvalse della collaborazione del generale Medici, del prefetto di Palermo Gualtiero e del procuratore generale Interdonato. L’impiego nel linguaggio ufficiale del vocabolo mafia (precisamente «maffia») fu inaugurato proprio in quell’occasione dal prefetto di Palermo.
La distruzione della comitiva di Angelo Pugliese fu favorita dai suoi manutengoli, che vollero la sua fine per acquisire benemerenze presso le autorità ed assieme eliminare pericolosi e scomodi collaboratori. I notabili locali coinvolti però continuarono a comportarsi allo stesso modo anche dopo il processo, essendo riusciti quasi tutti a sfuggire alla giustizia; fra i condannati al processo vi fu un solo proprietario. Il connubio fra galantuomini e briganti proseguì pertanto anche negli anni successivi, con rapporti abbastanza simili, anche se al posto dell’abigeato divenne la prima fonte di reddito illegale un’altra industria brigantesca, quella dei sequestri di persona, che permetteva di mettere mano sulle ingenti somme ricavate dai riscatti, che potevano essere adoperati nell’affitto di latifondi.
Mangiameli R., Banditi e mafiosi dopo l’Unità, in Meridiana-Rivista di storia e scienze sociali, Roma, n. 7-8, sett. ’89-genn. ’90, pp. 73-118.
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