Borbonici con garbo. Parla Paolo Rivelli
Il presidente del Real Circolo Francesco II di Borbone non ci sta a finire nel tritacarne delle polemiche e prende le distanze da certe forme di revisionismo: «Mi sembra opera di giornalisti che tentano lo scoop a tutti i costi anziché di storici impegnati a cercare la verità». Abbastanza duro anche sulla “Giornata della memoria” dedicata alle vittime meridionali del Risorgimento: «Chi l’ha proposta non ha dialogato con gli accademici e gli storici e si è fatto strumentalizzare dalla politica». E il Regno delle Due Sicilie? «Non credo sia stato il paradiso in terra descritto da alcuni, c’erano le eccellenze ma parlare di primati è eccessivo». E i Borbone? «Pagarono un prezzo troppo alto per la loro debolezza politica, ma tutti i protagonisti del Risorgimento oggi sono degli sconfitti, compresi i Savoia. Rileggiamo la storia, ma non creiamo divisioni inutili che fanno comodo solo a chi pesca nel torbido».
La storia? «La debbono scrivere e, se del caso riscrivere, gli storici professionisti». La nostalgia? «Può essere un sentimento nobile, ma la vita è tutt’altro e bisogna essere nostalgici di ciò che si sa essere esistito con certezza, non dei miti». La giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia? «Così com’è stata proposta non serve».
Difficile credere che a pronunciare queste frasi sia un personaggio di spicco degli ambienti borbonici. E infatti Paolo Rivelli, non accetta l’etichetta. Classe ’62, romano ma napoletano di origine e di sentimento («Mi sento napolitano, come si diceva una volta, anche nell’italiano ufficiale»), consulente finanziario e, per quel che interessa in questa sede, presidente del Real Circolo Francesco II di Borbone, Rivelli dice di sé e del suo ruolo: «Sono un meridionale appassionato della propria storia e delle proprie radici che svolge un’attività di riscoperta culturale».
Però deve ammettere che essere presidente di un circolo dedicato all’ultimo re del Regno delle Due Sicilie è piuttosto impegnativo, a livello d’immagine e, perché no?, politico.
È impegnativo, semmai, a livello culturale. Fondammo il Real Circolo nel 2011, in occasione delle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia non per proporre improbabili riletture della storia o, peggio, per lanciare rivendicazioni. Ma, più semplicemente, per rispondere a un bisogno, che esprimo con una domanda: come mai la retorica ufficiale continua a trattare il Risorgimento con lo stesso linguaggio e gli stessi contenuti tipici dell’età liberale e del fascismo? Come mai, solo da noi, continua la damnatio memoriae di ciò che c’era prima dell’Unità?
Però la storiografia, anche ufficiale, non è affatto tenera nei confronti del Risorgimento e della sua narrazione ufficiale, anzi.
Io parlo di senso comune, perché la storiografia ufficiale, che ha vivisezionato il Risorgimento, è appannaggio di pochi. Allora mi permetto un paragone: sulla Rivoluzione Francese si sono esercitati molti critici, anche in maniera piuttosto dura: penso a Pierre Gaxotte o ad Augustin Cochin e, in tempi recenti, a Francois Furet. Per quel che riguarda, invece, la Guerra di Secessione, osservo che, tranne che per dei brutti recenti episodi, negli Usa c’è sempre stata una sorta di accettazione dell’identità sudista. In questo caso citare gli storici non serve: si pensi ad alcuni telefilm, anche piuttosto popolari come Hazzard, in cui la bandiera confederata è esposta in bella evidenza o a quel capolavoro che è Il cavaliere pallido di Clint Eastwood. In entrambi i casi, la critica storica o la sopravvivenza di un immaginario non ha minimamente leso l’immaginario nazionale, semmai lo ha arricchito.
Non è colpa di nessuno, però, se negli Usa hanno realizzato Il cavaliere pallido e da noi, al massimo, è stato girato Li chiamarono briganti.
Non sarei così cattivo nei confronti del film di Squitieri, che tuttavia è piuttosto forzato nei riferimenti storici. Comunque, mi chiedo: come mai da noi è così difficile riflettere sul passato in maniera serena?
Ma gli associati del Real Circolo fanno o possono fare politica?
Nessuno glielo vieta, com’è giusto che sia in uno Stato di diritto. Ma, ecco il punto, nessuno glielo impone. È capitato che dei membri del Circolo si siano candidati, ma il Circolo non ha supportato le candidature e non si è impegnato in attività di propaganda politica perché è proibito dallo Statuto.
A proposito di visioni storiche: l’immaginario a cui in parte si ispira il Real Circolo è conteso da molti gruppi e associazioni. In cosa vi differenziate?
Direi che nella quasi totalità dei casi ci sia un problema di fondo: l’affrontare determinati temi con il torcicollo, cioè la testa all’indietro e lo sguardo rivolto solo al passato. A furia di vivere di nostalgie si rischia di perdere di vista il presente. E c’è di peggio: temo che l’evocazione di un passato radioso del Sud, distrutto dall’invasione dell’esercito sardo finisca per assolvere le attuali classi dirigenti meridionali, che hanno molte cose da farsi perdonare da noi. Non solo: su quali basi si asserisce che il Regno delle Due Sicilie fosse uno Stato prospero? E che prove vengono fornite sui primati ribaditi a ogni pie’ sospinto? Io non credo che il Meridione dei Borbone fosse quel paradiso e credo che le eccellenze, che pure non mancarono, non fossero dei primati mondiali. Dico questo senza essere uno storico e credo di essere più onesto intellettualmente rispetto a chi evoca primati da grande potenza.
Eppure una buona parte della letteratura revisionista antirisorgimentale vive di primati azzerati e di paradisi distrutti.
Al riguardo, occorre ricordare che questa letteratura non è prodotta da storici ma da giornalisti. Mi riferisco agli autori più noti, come Pino Aprile, Lorenzo Del Boca e Gigi Di Fiore. Non discuto delle loro qualità professionali, ma credo che le loro opere siano viziate dalla deformazione professionale tipica di tantissimi giornalisti: la ricerca di notizie da strillare più che della verità storica. Io penso che la storia e il giornalismo, sebbene si somiglino, siano due discipline diverse che richiedono background specifici. Lasciamo la storia agli storici. Lei si farebbe curare un’ernia da un idraulico? O farebbe riparare il lavandino a un veterinario? Certo che no. E perché dovremmo fidarci di un non storico per conoscere il nostro passato?
Tuttavia c’è chi ha proposto la celebrazione di una Giornata della memoria dedicata alle vittime meridionali dell’Unità d’Italia. Se ne parla da quest’estate, in seguito alla discussa approvazione nei consigli regionali di Basilicata e Puglia di mozioni a favore di quest’iniziativa.
Non sono state iniziative felici, perché prese senza coinvolgere gli studiosi e gli addetti ai lavori. Noi non abbiamo alcuna prova che al Sud sia stato commesso un genocidio e non conosciamo l’entità e le motivazioni reali delle violenze, che pure non mancarono e furono commesse da tutte le parti in causa e degli eccessi nella repressione. Se non sappiamo tutto questo, che cosa dovremmo celebrare? Coinvolgere gli storici e gli accademici non significa chinare il capo a lobby e baronie, ma più semplicemente evitare di essere ostaggi della classe politica che cerca consensi sulla base di suggestioni temporanee e non si preoccupa minimamente della verità storica, che è invece la nostra preoccupazione.
Visto che ci siamo, qual è la sua opinione sul revival del brigantaggio?
Stesso discorso: se non conosciamo questo fenomeno, di cosa dobbiamo parlare? Io dico una cosa banale: il brigantaggio era diffuso anche nel Regno delle Due Sicilie, come provano i numerosi editti di Ferdinando II e Francesco II. E non era neppure una specialità meridionale, ma un problema presente in altre regioni, ad esempio l’Emilia Romagna. Al Sud raggiunse dimensioni allarmanti in seguito al vuoto istituzionale che si creò col cambiamento politico. Ma il fenomeno e il vuoto che lo generò sono tutti da approfondire. I briganti, a mio giudizio, non devono essere né applauditi, come fanno vari incoscienti, né demonizzati. Più semplicemente, devono essere studiati.
Come mai il Real Circolo è dedicato a Francesco II?
Fu una figura tragica e ingiustamente maltrattata dalla storia. Divenne re a soli 22 anni e dovette affrontare problemi molto più grandi di lui. Eppure, dal corposo carteggio che ha lasciato, esce un ritratto diverso dal re imbelle su cui in tanti insistono ancora: aveva capito la necessità delle riforme e tentava di procurarsi i mezzi per realizzarle. Noi vorremmo che la storia, oggi, gli rendesse giustizia.
C’è chi parla di storia scritta dai vincitori.
Se è così, io dico che quasi tutti i protagonisti del Risorgimento, i vinti come i vincitori di ieri, sono degli sconfitti. Oggi si parla praticamente solo di Cavour e di Garibaldi. E gli altri? Sui Savoia pesa la stessa damnatio memorie che ha pesato sui Borbone. Sarebbe il caso di riscrivere molte cose per rendere giustizia a tutti. Magari cominciando da Francesco II.
Perché proprio lui?
Si pensi che a Roma esiste una chiesa nazionale napoletana: lo Spirito Santo dei Napoletani, a via Giulia. Questa chiesa finì nell’abbandono e nell’incuria totali. Quando fu riaperta negli anni ’80, il rettore vi trovò un degrado terribile e un dito di polvere dappertutto. Eppure lì c’erano le tombe di Francesco e dei suoi familiari. Che nel 1984 furono traslate a Santa Chiara. Ecco, questo abbandono è l’immagine della dimenticanza della storia. Noi vogliamo continuare a rimuovere la polvere: i Borbone erano re italiani come i loro cugini Savoia.
A proposito della famiglia Borbone: voi siete vicini al ramo spagnolo.
Don Pedro è per noi un punto di riferimento. Ma non vogliamo assolutamente entrare in contese dinastiche, perché non ci interessano. E poi lo stesso don Pedro è Duca di Calabria e Capo della Real Casa, come ha riconosciuto don Carlo, e don Pedro ha riconosciuto a don Carlo il titolo di Duca di Castro. Tanto ci basta. È una questione di stile: per noi l’importante è che si persegua un’attività culturale degna di questo nome, perciò come ci riteniamo al di fuori della mischia dei gruppi revisionisti così non entriamo in contese dinastiche che per noi non esistono.
Ma delle rivendicazioni del post meridionalismo cosa resta?
Noi ne abbiamo una: conoscere la nostra storia per guardarla e riviverla in maniera serena. Per questo chiediamo aiuto agli storici di professione e al mondo accademico, con cui vogliamo dialogare e, nei limiti delle nostre possibilità, collaborare. Soprattutto, non vogliamo farci strumentalizzare dalla politica.
Va bene, ma i drammi della storia del Sud li avete rimossi?
Ma vogliamo scherzare? Proprio no. Faccio un esempio: non importa tanto se i morti di Pontelandolfo siano stati mille, come sostengono certi revisionisti, o solo 13, come sostiene padre Davide Fernando Panella. Ciò che conta è che dei civili siano morti durante un’operazione repressiva dell’esercito. In entrambi i casi emerge il dramma di una guerra civile, in cui tra l’altro morirono anche soldati che ormai erano italiani. Da questo dramma occorre iniziare a riflettere. E solo dopo che avremo risposte valide potremo parlare di giornate della memoria. Purché sia davvero una memoria condivisa e non la scusa per creare contrapposizioni che fanno comodo solo a chi ama pescare nel torbido.
(a cura di Saverio Paletta)
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