Addio a Giuseppe Galasso, l’ultimo grande allievo di Croce
Cordoglio generale per l’illustre storico e meridionalista, scomparso a 88 anni. Ma spuntano i consueti veleni da certi ambienti neoborbonici
«Lo studio della storia marcia insieme alla passione civile ma oggi stanno tornando forze oscure e minacciose», aveva dichiarato in una delle ultime interviste, rilasciate ad Antonio Gnoli di Repubblica.
Parliamo di Giuseppe Galasso, morto a 88 anni, uno degli ultimi decani della grande storiografia italiana e l’ultimo grande allievo di Benedetto Croce, in entrambi i casi, ovviamente, ultimo per motivi anagrafici e non di qualità.
Liberale di vecchia scuola, Galasso è stato uno storico modernista, capace di notevoli passi all’indietro, di cui fanno fede i non pochi saggi sul medioevo, come di poderosi balzi in avanti e al riguardo c’è solo l’imbarazzo della scelta nella corposissima produzione, tutta di alta qualità, dedicata al Risorgimento e ai suoi protagonisti.
Fece anche politica, come poteva farla un laico di grande cultura: nel Pri di La Malfa padre e di Giovanni Spadolini. Forse non fu ambientalista, in compenso precorse con la prima legge sulla tutela ambientale le tematiche forti di quei movimenti, Verdi in primis, che allora erano ai vagiti iniziali.
Soprattutto, Galasso fu un grandissimo meridionalista, come sanno esserlo tutti i meridionali pensanti che si interrogano sul Sud.
Lo prova la miriade di saggi, alcuni ormai classici, in cui il Nostro ha passato al setaccio la storia del Regno di Napoli e delle sue successive evoluzioni-incarnazioni.
Con questo retroterra, di storia studiata e di storiografia prodotta, lui non si fece incantare da certe sirene rivendicazioniste e identitarie. Tutt’altro: subodorò i pericoli dell’involuzione culturale in atto e lanciò per tempo i relativi allarmi. Forse pure per questo c’è chi, anziché praticare il cordoglio, che non si nega neppure ai peggiori delinquenti, è riuscito a giubilare per la sua scomparsa. «Traditore della Patria» (quella duosiciliana), ha scritto qualcuno. «Uno di meno», ha commentato qualcun altro.
Sono tutti esponenti di quella che il giornalista ed ex direttore della Gazzetta del Mezzogiorno Lino Patruno ha definito in un libello di alcuni anni fa galassia del nuovo meridionalismo e ha elogiato come «briganti della cultura».
E in effetti, su questo aspetto Patruno ha ragione: chi si comporta così di fronte alla morte, altro non è che un brigante, nell’accezione peggiore (e a giudizio di chi scrive prevalente) del termine. A proposito di veleni, seminati da qualche marmista improvvisatosi revisionista e rilanciati da sacerdoti che dovrebbero pensare un po’ più ai doveri sacramentali, sorge spontanea una domanda: quali torti gravi ha avuto Galasso per scatenare tanta indecorosa acredine? Essenzialmente uno: aver pensato il Sud, quel suo Sud che ha raccontato sin nei dettagli di ogni palmo di terra, nel contesto dell’Italia e della civiltà europea ed essersi interrogato sulle sue inadeguatezze cercandone le cause e non i presunti colpevoli.
Galasso era di carattere facile ma di penna difficile: bonario e simpatico quando parlava, sapeva essere di una durezza unica quando scriveva e, soprattutto, quando entrava nelle polemiche, gestite comunque con distacco ed eleganza. Era un liberale crociano, orgoglioso di esserlo. Ma affrontava il discorso storiografico in terza persona, come ogni vero accademico dovrebbe fare. E forse questo lo ha posto in rotta di collisione verso chi pretende di parlare per tutti e sa solo dire (anche male) io.
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