«Ma quale Lager? Vi racconto cos’era Fenestrelle». Parla Juri Bossuto
L’ex consigliere regionale piemontese, smentisce la leggenda nera secondo cui nell’antico Forte della Val Chisone sarebbero stati sterminati i soldati del Regno delle Due Sicilie. A proposito dei neoborbonici: «Le prime volte li accogliemmo volentieri, poi fu un’escalation». E le polemiche hanno fatto danni, visto che la Regione ha tagliato i fondi per la manutenzione
Fenestrelle un campo di sterminio? Ma proprio no. E sarebbe impropria anche la dicitura Lager, che in tedesco vuol dire campo di prigionia, dato che non tutti i Lager erano campi di sterminio.
Ma il Forte di Fenestrelle, diventato una bestia nera dell’immaginario neoborbonico e del revisionismo antirisorgimentale, non fu neppure un campo di concentramento, non come dalla Seconda guerra mondiale siamo abituati ad intenderlo.
Fu, innanzitutto, una fortezza militare posta in una zona delicata: la Val Chisone, antica zona di frontiera tra il Piemonte sabaudo e la Francia dei Capeto.
Poi fu adibito, effettivamente, a carcere. Quindi a deposito militare, infine a caserma.
In tutti questi cambiamenti, tipici nella storia delle grandi fortezze, c’è un solo dato certo: a Fenestrelle non fu sterminato nessuno. Non i prigionieri austriaci, i primi a metterci piede, non quelli papalini, che li seguirono a ruota. Non quelli duosiciliani.
Niente prove tecniche del genocidio antimeridionale sostenuto dai revisionisti alla Pino Aprile.
Lo ribadisce una volta di più Juri Bossuto, tra i primi a difendere il Forte (in senso simbolico e politico, si capisce) quando, sulla scia del successo di Terroni di Pino Aprile e dei libri dell’ex presidente dell’Ordine dei giornalisti Lorenzo Del Boca si diffondeva la bufala secondo cui i soldati borbonici vi sarebbero morti a migliaia.
Quello di Bossuto con il forte è un rapporto antico,
Torinese, classe ’65, legale e giornalista, Bossuto è stato consigliere regionale per Rifondazione comunista. Sin dalla prima giovinezza si è dedicato al recupero e alla conservazione del Forte, a cui ha dedicato una parte corposa del volume Le catene dei Savoia (Il Punto, Torino 2012), scritto a quattro mani con Luca Costanzo.
Il libro precede di due anni il fortunato (e ottimo) I prigionieri dei Savoia (Laterza, Bari 2018), con cui Alessandro Barbero interviene nel dibattito innescato dalle celebrazioni del 150esimo dell’Unità d’Italia e smantella del tutto la leggenda macabra di Fenestrelle-Lager lanciata da Terroni.
Come mai tanto amore per questa fortezza?
Io parlerei di amore per il territorio, di cui il Forte è un simbolo. E gli amori nascono sempre da vicende individuali.
In questo caso qual è stato lo stimolo?
I ricordi d’infanzia. I miei nonni avevano fittato una casa a Fenestrelle, dove trascorrevo tutte le estati. E che estati. I miei amici d’infanzia sono tutti lì. Passavamo la bella stagione a fare scorribande degne di Tom Sawyer. E poi c’era il Forte: era ridotto a un rudere, sebbene fosse affidato alla custodia del Demanio ed era pericolante in più parti. Inutile dire che per noi bambini dei primi anni ’70 intrufolarci lì dentro abusivamente era il massimo. A ripensare ai rischi che ho corso… Insomma, sono torinese senz’altro, ma adottivo di Fenestrelle, cosa che rivendico con un certo orgoglio.
Ma quando venne l’idea di recuperare il Forte?
I primi tentativi risalgono a metà degli anni ’80. Ricordo che cercammo dei volontari per gestire il piccolo museo di storia locale.
E poi?
Nel frattempo partii per il servizio militare. Una volta tornato, ripresi a occuparmi della struttura. Nel ’98 divenni presidente della pro-loco, poi presidente dell’associazione Progetto San Carlo Onlus, Debbo dire che fu una bella stagione: recuperammo il Forte in totale economia, grazie alla partecipazione entusiastica di molti, anche architetti, che diedero il loro contributo. Quando lasciai la presidenza dell’associazione, il Forte era illuminato e in piena sicurezza.
A proposito di sicurezza: era questa l’originaria funzione del Forte, che non nacque come prigione…
Certo, la Val Chisone fu una zona di confine, di passaggio e di invasioni, da Pietro Micca in avanti. Il Forte di Fenestrelle era l’esempio classico di bastione posto a difesa del territorio. Ebbe questa funzione fino all’avvento di Napoleone. Con l’imperatore dei francesi divenne un bagno penale. I Savoia tornarono nel 1814 e il Forte mantenne questa funzione. Ai prigionieri politici si aggiunsero i prigionieri comuni, condannati per reati molto gravi, per i quali era prevista una pensa dai dieci anni a salire.
Chi erano i prigionieri politici dell’epoca?
Sostanzialmente quelli che mettevano in discussione l’Ancien Règime e l’ordine instaurato dal Congresso di Vienna, di cui i Savoia facevano parte come i Borbone. Tra questi prigionieri figura Vincenzo Gioberti, uno dei profeti del Risorgimento.
E poi?
Il Forte divenne una caserma nel 1843 e vi furono alloggiati i Cacciatori Franchi, un corpo disciplinare.
Cioè, un corpo punitivo?
Anche. Ma era essenzialmente un corpo militare dalla disciplina più dura rispetto agli altri corpi. Non vi si praticavano torture o punizioni speciali, ma solo addestramenti e mansioni più pesanti.
Ad esempio?
Le esercitazioni con le spade di legno sui bastioni alle 6,30 del mattino. Considerato che il Forte è a circa 1.800 metri d’altezza non era proprio il massimo. Ma da qui a parlare di torture ne corre.
Infine divenne un deposito militare. Cosa vuol dire esattamente?
I depositi erano luoghi in cui stazionavano temporaneamente i prigionieri di guerra in attesa di destinazione definitiva. I primi furono i prigionieri austriaci nel ’48. Poi i papalini nel ’60, infine i duosiciliani.
Ma per destinazione definitiva non si intende il camposanto…
Tutt’altro: erano altri corpi militari, per chi accettava di terminare la ferma nell’Esercito sabaudo, il carcere, per chi aveva commesso reati, o i luoghi di origine per chi era dispensato. Ma in ogni caso Fenestrelle non era né un carcere a vita né un luogo di esecuzioni sommarie. Tra i prigionieri borbonici, come risulta dall’abbondante documentazione prodotta i morti furono cinque e morirono di malattia, cosa non infrequente nelle caserme e nei carceri dell’epoca.
Ma come sono uscite le cifre iperboliche di Aprile e degli altri revisionisti?
Sono liberi di pensare e di scrivere quello che vogliono. Ma i documenti dicono tutt’altro.
E a che tipo di trattamento venivano sottoposti i prigionieri di guerra?
Era un trattamento rigido dal punto di vista disciplinare. Ma rigido non voleva dire inumano o cattivo. Tutt’altro. Ad esempio, quando arrivarono i primi prigionieri, il colonnello Graglia, comandante del Forte, protestò con Torino per le condizioni in cui questi ultimi erano giunti lì: sporchi e malvestiti. Fece riscaldare le camerate e ordinò che fossero preparati dei pasti caldi. Non mi pare proprio che fosse un’accoglienza per dei prigionieri di cui si voleva lo sterminio o che si voleva far morire di stenti. Inoltre, proprio considerate le condizioni climatiche non facili per chi veniva da zone più calde, Graglia tentò di inviare i prigionieri più anziani ai depositi militari, dove la situazione era meno rigida.
I prigionieri meridionali che rapporti ebbero con la popolazione del luogo?
Fenestrelle è sempre stata una zona accogliente. Tant’è che alcuni prigionieri firmarono per proseguire la ferma nel Forte e tra di essi ci fu chi vi si trasferì definitivamente. Di queste scelte reca traccia l’anagrafe, visto che Conte, un cognome di origine napoletana, è ancora piuttosto diffuso.
Quali sono stati i rapporti coi gruppi neoborbonici?
Li incontrai per la prima volta nel ’99, quando ero ancora presidente del Forte e autorizzai una loro manifestazione: una cerimonia commemorativa con una messa officiata da un sacerdote lefevbrista. Fu un momento molto chic. Ricordo che mi regalarono anche dei loro gadget. Poi avvenne l’escalation e si passò dalla commemorazione alla rivendicazione. Apposero una lapide nella piazza d’armi, che facemmo ricollocare.
Per quale motivo?
Nulla contro di loro. Ma solo il fatto che, se avessimo tenuto lì la lapide avremmo implicitamente autorizzato tutti gli altri gruppi che visitavano il Forte a fare altrettanto e, a furia di ricordi e lapidi, la piazza d’armi sarebbe diventata una bacheca.
Ma le polemiche lanciate dai revisionisti hanno avuto qualche effetto?
Hanno influito, purtroppo, sulla decisione della Regione di tagliare i finanziamenti. È un vero e proprio peccato: sulla base di un falso storico, cioè l’uso di Fenestrelle come campo di sterminio per i prigionieri meridionali, è stata montata una polemica che ha avuto per esito il parziale abbandono di un’operazione di recupero di un monumento storico bello e importante. Purtroppo, in un Paese fazioso come il nostro l’abuso pubblico della storia, per citare un bel libro di Aldo Giannuli, continua a far danni.
(a cura di Saverio Paletta)
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nel 1961 facevo il militare al car di cuneo e durante il periodo di addestramento fui chiamato a far parte di un plotone selezionato .una mattina(mi sembra fosse nel mese d’agosto) fummo portati in montagna nella zona di fenestrelle per fare il picchetto d’onore ad una cerimonia commemorativa di non so quale battaglia.ricordo soltanto che quasi morimmo dal freddo in quanto eravamo in divisa estiva non certo adatta quelle altitudini. qualcuno sa dirmi se e’ una cerimonia ricorrente oppure era commemorativa 1861-1961?
mi piacerebbe sapere se ancora si fa questa commemorazione e come si chiama il luogo.
spero che qualche esperto in materia mi sappia rispondere .
GRAZIE F.to A. Gabrielli (classe 1938)
Egregio Gabrielli,
Mi scuso per la risposta tardiva. Credo che la persona più adatta a rispondere sia Juri Bossuto, presidente del Forte di Fenestrelle.
Gli giro senz’altro la sua domanda e, le assicuro con maggior tempestività, le inoltrerò la risposta.
Con l’augurio di vivere bene la reclusione forzata,
Saverio Paletta
Complimenti per il lavoro svolto, eseguito, come sempre, con imparzialità ed accuratezza. Mi permetto di segnalare, a chi volesse fare una ricerca sui detenuti morti nelle carceri “duosiciliani”, il lavoro svolto da Mariano D’Ayala (interessante perché svolto nel 1860-61 quando, in assenza di internet, il lavoro di ricerca andava svolto sul luogo stesso e con il contatto diretto con i protagonisti dei fatti) o più semplicemente le “Ricordanze” di Settembrini. Buona giornata e buon lavoro
Grazie per il contributo e buona domenica!