Dazi e meridionalismo, le contraddizioni di Gigi Di Fiore
Secondo lo scrittore napoletano la politica economica dell’Italia Unita avrebbe affossato il Sud. In realtà la tesi traballa non poco e lo stesso autore si contraddice in più punti
Gigi Di Fiore nel suo libro La nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità suddista (Utet, Novara 2015), riporta lamentele della sua parte politica autodefinita suddista: il Mezzogiorno sarebbe stato rovinato economicamente dall’Unità d’Italia.
Questa vecchia ipotesi è stata da tempo, da molto tempo, esaminata sino allo sfinimento da storici ed economisti, per giungere alla conclusione dell’inesistenza d’una relazione fra l’unificazione politica e la Questione Meridionale, le cui cause sono d’altra natura e la cui genesi è anteriore al 1861.
[Per lo star dell’arte del dibattito: Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna, 2013].
Può essere interessante mostrare come il giornalista Di Fiore si contraddica assai spesso. L’esempio più marcato di queste contraddizioni si ritrova quando accenna alla politica doganale dello Stato italiano. A suo parere, il Sud sarebbe stato danneggiato dalla politica doganale adottata dalla Destra storica, che era liberista e propugnava quindi dazi più bassi di quelli del Regno delle Due Sicilie: «Ma arrivò l’unificazione e anche Mongiana ne subì ripercussioni negative: […] niente barriere doganali e la condanna a morte fu decretata.» scrive il nostro. Di Fiore estende il giudizio all’intera industria duosicialiana, che avrebbe tratto vantaggio dal protezionismo borbonico: «L’industria napoletana era stata una realtà eterogenea, che fino a quarant’anni prima aveva assicurato occupazione, producendo per un mercato in prevalenza interno, a riparo dalla concorrenza esterna attraverso barriere doganali tra le più rigorose di quel periodo».
Eppure, poche pagine più tardi, egli scrive: «Ma la mazzata definitiva al Mezzogiorno arrivò dai contrasti diplomatici con la Francia, seguiti a una guerra commerciale che, nel 1887, aveva portato all’abolizione del vantaggioso trattato commerciale del 1863. Le armi di quella guerra economica furono le imposizioni di tariffe doganali protezioniste». Egli insiste sui danni del protezionismo doganale: «Da quel 1887, il divario Nord-Sud avrebbe cominciato davvero a farsi profondo.»; «Quel redivivo protezionismo doganale, che tanto era stato contestato al Regno delle Due Sicilie, divenne formula magica per risolvere i problemi economici della predominante industria del Nord. Il Sud subì un vorticoso tracollo dei prezzi agricoli.»
Il Regno delle Due Sicilie seguiva una politica protezionista, con dazi alti. Sotto la Destra storica, liberista, i dazi doganali erano bassi. Sotto la Sinistra storica, protezionista, i dazi doganali divennero alti dal 1887. Ebbene:
1) Gigi Di Fiore riesce a dire che il Mezzogiorno è stato danneggiato sia dal liberismo sia dal protezionismo: allora che cosa si doveva fare?
2) il giornalista napoletano dapprima afferma che il protezionismo del regno borbonico era risultato positivo, mentre questa medesima politica diviene nel suo giudizio negativa quando applicata dallo stato italiano.
3) egli riesce prima a dire che i dazi doganali bassi della Destra storica erano dannosi, poi a sostenere l’esatto contrario, parlando di un «vantaggioso trattato commerciale del 1863» e scrivendo che «dal 1861 al 1880, la crescita delle esportazioni dei prodotti coltivati era arrivata a numeri da boom economico». Dopo aver parlato di un Meridione rovinato da subito dalle politiche economiche dello stato italiano, Di Fiore sostiene che per vent’anni circa esso aveva conosciuto un «boom economico» nel settore di gran lunga più importante, quello agricolo. Allora di quale crisi economica si parlerebbe?
Le asserzioni riportate in La nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità suddista sulla politica doganale italiana dalla Destra storica sino alla Sinistra storica sono non soltanto contraddittorie, ma anche erronee.
È incontestabile che il liberismo della Destra storica abbia portato a vantaggi economici per il Mezzogiorno, poiché ha favorito l’espansione del settore agricolo, di gran lunga il più importante nel Meridione.
Quale autore di riferimento, fra i molti, si può prendere Giustino Fortunato, meridionale, meridionalista e studioso insigne.
[G. Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributaria, in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Discorsi politici (1880-1910), nuova edizione a cura di Umberto Zanotti Bianco, Firenze, 1926, volume secondo, p. 307].
Fortunato giudicava positivamente la politica doganale adottata dalla Destra storica, che rimase al governo dal 1861 al 1876. Egli scriveva che nell’«opera della unificazione, quella che non solo nocque ma tornò utile al Mezzogiorno, fu l’indirizzo impresso, fin da prima, dal nuovo Regno alla politica doganale. Il trattato di commercio con la Francia, stipulato nel 1863 e rinnovato nel 1881, assicurò alle nostre produzioni agricole larghi sbocchi sui mercati esteri, così che in breve crebbe in proporzione doppia per gli olii, tripla per gli agrumi, decupla per i vini». Egli ritiene quindi che l’abbassamento dei dazi doganali attuato dallo Stato unitario abbia favorito e grandemente le esportazioni agricole del Mezzogiorno, che aumentarono di molte volte per intere categorie di prodotto.
Dopo decenni di liberismo, il primo gennaio 1888 entrò in vigore la nuova tariffa generale, istituita con legge 14 luglio 1887, con successive modifiche negli anni successivi. La normativa prevedeva un aumento dei dazi sia su prodotti industriali, sia su quelli agricoli.
Mentre il liberismo certamente favorì il Mezzogiorno, il protezionismo lo danneggiò: ma questo avvenne per favorire gli interessi del Settentrione oppure per altre cause?
Il professor Salvatore Lupo in un suo breve ma prezioso articolo ha ricordato come certi sedicenti meridionalisti, che egli non nomina, «aggiustassero» (egli usa proprio questo termine) lo stesso meridionalismo, a cui dicevano di ispirarsi, «al fine di renderlo ancor più funzionale a un’immagine del Sud sempre e in toto “piagnona”.» Come avviene questo aggiustamento?
Lupo scrive: «Così viene spesso richiamato il Fortunato che lamenta lo «sfasciume» del territorio, non quello che insiste sui grandi vantaggi conseguiti dal Mezzogiorno con l’Unità d’Italia; è citato il Nitti che tuona contro il drenaggio verso Nord del capitale meridionale, non quello che guarda all’emigrazione da un lato e all’industria elettrica dall’altro come ai due grandi fattori di innovazione e di rinascita; Rossi-Doria è sempre quello dell’osso ma mai quello della polpa, e guai a chi ricorda i suoi giudizi favorevoli sugli effetti della riforma agraria». [S. Lupo, Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, in Meridiana, n. 32, 1998, pp. 17-52].
Nello stesso articolo, Lupo si sofferma sulle politiche doganali dello Stato italiano nell’era liberale, demolendo con facilità e con ragionamenti lineari luoghi comuni ancora resistenti nella divulgazione. Lo storico siciliano non ha problemi a dimostrare che anche le politiche protezionistiche beneficiarono alcuni settori del Mezzogiorno e che esse comunque avevano avuto appoggi da grosse e potenti lobbies meridionali.
Quindi a distinzione fra liberisti e protezionisti non coincideva con quella tra sudisti e nordisti, ossia non aveva una caratterizzazione di ordine geografico, ma rispondeva ad interessi e categorie d’altra natura, trasversali regionalmente. Ad esempio, fu favorevole al protezionismo un prestigioso intellettuale meridionalista come Napoleone Colajanni.
Al riguardo, si deve essere sottolineare che il mutamento nella politica doganale non è stato voluto da una classe dirigente espressione del Settentrione, bensì del Meridione, in cui la Sinistra storica aveva la propria base elettorale e dirigenziale. Il presidente del consiglio che volle questo mutamento della politica doganale era il siciliano Francesco Crispi. Così Fortunato commentò la legge sui dazi: «anche noi meridionali demmo il voto, presso che unanime».
Il Mezzogiorno finì con l’essere l’area geografica più colpita, senza che i promotori della riforma (per lo più meridionali) lo avessero voluto ma per una classica eterogenesi dei fini, per cui misure rivolte a produrre un effetto per un concatenarsi di conseguenze ne determinano l’opposto.
[Sul tema esiste uno studio di valore di Stefano Fenoaltea, Politica doganale, sviluppo industriale, emigrazione: verso una riconsiderazione del dazio sul grano, in Il progresso economico dell’Italia, a cura di C. Ciocca, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 137-150].
Non si ripeterà mai abbastanza che il mutamento della politica doganale fu voluto da una classe dirigente anzitutto meridionale ed espressione degli agrari del Mezzogiorno.
In breve, la ricostruzione che Di Fiore porta delle politiche doganali dello stato italiano liberale è assieme contradditoria e sbagliata.
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