Intercettazioni, ma è davvero grave questo bavaglio?
Ancora imperversano le polemiche sulla miniriforma del processo penale, che, se definitivamente approvata, comporterebbe un maggior lavoro per i magistrati e limiti in più per la stampa. La Fnsi e l’Odg intervengono pesantemente e accusano: così si limita troppo il diritto dei cronisti. Ma le cose stanno davvero così? La restrizione c’è, ma non è tanto grave…
Orlando prima rassicura: nessun giro di vite sulle intercettazioni. Poi, contrordine compagni: arriva il giro di vite, ma riguarda più i giornalisti che i magistrati.
Questi ultimi, semmai, avrebbero una discrezionalità difficile da gestire, su cui si è già espressa in termini caustici Giulia Bongiorno: «Vi sarà un’enorme discrezionalità, ai limiti dell’arbitrio, nel decidere quali intercettazioni sono rilevanti e quali no», ha dichiarato l’avvocata ed ex deputata ad Huffington Post, «escludo che i magistrati italiani, pochi e con enormi carichi di lavoro, riescano a fare i controlli che richiederebbe questa legge».
Ed è la critica più pertinente su questa parte del pacchetto Orlando, che fa parte della riforma del processo penale.
Le altre critiche hanno riguardato la possibilità di pubblicare le intercettazioni e non a caso sull’argomento sono intervenuti in maniera pesantissima l’Ordine dei giornalisti e la Fnsi con una nota congiunta al peperoncino, secondo cui sarebbe a rischio nientemeno che l’articolo 21 della Costituzione.
È davvero così? Sì e no. Il rischio, per i cronisti, di finire in gattabuia fino a tre anni, qualora pubblichino intercettazioni non autorizzate, c’è. Ma questa stretta, in sé, potrebbe non essere quella tragedia e, a prima vista, può apparire anche come la reazione ad abusi passati.
Diamo un’occhiata più da vicino alla riforma, tuttora al vaglio del Parlamento.
Dunque, le intercettazioni saranno possibili, ma sottoposte a più vagli. Il primo sarà effettuato dalla Polizia giudiziaria sotto il controllo del magistrato, che darà le direttive agli agenti, i quali a loro volta dovranno riferire a lui. Sulla carta, questa norma servirebbe a fare un po’ d’ordine sui rapporti tra pg e magistrati inquirenti e, soprattutto, a limitare il rischio, più volte criticato, che i secondi pendano dai primi.
Questa scrematura serve a distinguere le intercettazioni che potrebbero avere rilevanza penale da quella che non ce l’hanno. L’unica differenza sostanziale è che, in questo caso, il magistrato dovrebbe lavorare di più.
Tutte le intercettazioni, o almeno una loro gran parte, saranno registrate, quelle che hanno rilevanza penale saranno trascritte e quindi riversate negli atti, le altre, appositamente numerate, resteranno in un archivio, affidato alla responsabilità del capo della Procura. Potranno essere ripescate, qualora nel corso del procedimento emergesse la loro rilevanza penale, oppure cancellate al termine del processo.
Su questa parte della riforma, che comunque dovrebbe essere rodata prima di poter esprimere un giudizio definitivo sono validi i rilievi tecnici della Bongiorno.
Veniamo alla parte sulla libertà di stampa. Al riguardo, più o meno tutti – a partire da Il Fatto Quotidiano e Repubblica – hanno puntato il dito sull’ormai famigerato articolo 3 del decreto che aggiunge un comma 5 all’articolo 268quater del Codice di procedura penale, secondo cui gli «atti e i verbali relativi a comunicazioni e comunicazioni non acquisite sono immediatamente restituiti al pubblico ministero per la conservazione nell’archivio riservato (…) sono coperti da segreto».
Il rischio di finire in gattabuia, per chi pubblicasse uno di questi atti, c’è tutto e l’ipotesi di reato, in effetti, non è proprio leggerissima: rivelazione di segreto d’ufficio in concorso con pubblico ufficiale.
Questo rischio, non remotissimo, ha stimolato la reazione dell’Ordine e del sindacato dei giornalisti, che hanno dichiarato: «Sulla cosiddetta “essenzialità” rischia di innescarsi un grave conflitto con pesanti ripercussioni sullo stesso diritto di cronaca e sul diritto dei cittadini ad essere informati su questioni essenziali come la conoscenza di vicende di mafia, corruzione e malaffare. Non casualmente, manca per l’ennesima volta il riconoscimento del diritto di pubblicare ogni notizia che abbia il requisito del pubblico interesse e della rilevanza sociale, a prescindere dalla rilevanza penale, così come stabilito in diverse occasioni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il governo finge di ignorare che non tutto ciò che ha rilevanza per l’opinione pubblica deve avere necessariamente rilevanza penale».
Difficile disconoscere la giustezza di fondo di questa uscita. Però occorre pure sottolineare che in nessun Paese d’Europa i media hanno pubblicato le intercettazioni come in Italia. Soprattutto da quando è in vigore l’attuale Codice di procedura penale.
E crediamo che la chiave di lettura corretta del problema stia proprio nell’impianto del Codice, che ha ribadito al massimo un concetto fondamentale: il processo penale è pubblico. E pubblici, quindi, sono gli atti che lo riguardano. Ora, è vero che, per parafrasare André Gide, che «la verità non si risolve negli atti di un magistrato» e che spesso vi sia altrettanta verità in ciò che non ha rilevanza penale rispetto a ciò che è penalmente rilevante. Il rischio, in parole poverissime, è che la verità processuale, in questo caso selezionata dal magistrato e dalla pg, assorba quella storica, che dovrebbe essere di competenza dei giornalisti.
Ma il problema non riguarda solo le categorie, giudiziarie e professionali, che rischierebbero di trovarsi in conflitto. In mezzo esiste anche il diritto alla privacy, che deve essere riconosciuto anche agli imputati di mafia che attendono il giudizio, magari in detenzione di massima sicurezza.
Siamo sicuri che i giornalisti abbiano sempre brillato nel rispetto di questi fondamentali diritti? In un Paese come l’Italia, dove spesso la cronaca giudiziaria si è prestata alla grande a usi e scopi politici (e non è un caso che molti brillanti cronisti giudiziari abbiano fatto gavetta in organi di partito) ne abbiamo viste di tutti i colori. E c’è da aggiungere che alcune importanti inchieste dell’ultimo ventennio sono state spesso intralciate dalla disinvoltura con cui determinati atti sono finiti sui media prima ancora che nelle aule. Certo, può essere grave lasciare alla discrezionalità dei magistrati la rilevanza penale delle intercettazioni. Ma non è pacifico che spetti ai giornalisti stabilire del tutto ciò che deve essere divulgato.
L’Italia non vive una situazione felice a livello di libertà di stampa. E Aldo Giannuli, guarda caso uno storico specialista sui Servizi Segreti e non un giornalista, lo ha ribadito: colpa della giurisprudenza, secondo lui, se la stampa italiana subisce dei pesanti limiti. Ma questa giurisprudenza è, in molti casi, il prodotto della reazione ad abusi.
Dare norme certe, anche se pesanti, significa comunque limitare gli arbitri di tutte le parti. E se si tenta di fare questo con una legge non proprio brillante, che magari cerca di evitare ai big del centrosinistra ciò che è capitato a Berlusconi, pazienza: le vere responsabilità di questa situazione sono altrove. Magari dove si doveva imporre una deontologia più ferrea per tempo e non lo si è fatto. Ma al momento queste sono solo ipotesi: la parola passa al Parlamento.
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