Toghe con le pezze, in 8mila mollano la professione
Rispetto al totale degli iscritti la somma sembra minima, ma la povertà in aumento (80mila redditi “da fame”) e le nuove forme di concorrenza al ribasso prodotte dalle nuove tecnologie e dall’alto numero di laureati che “bussano” alle porte dell’Ordine forense non fanno ben sperare. I vertici della Cassa Forense cercano di minimizzare e additano, tra i responsabili della crisi, le grandi compagnie di assicurazione, che pagano poco e male. Ma lo stesso istituto di previdenza, grazie ai famigerati contributi minimi obbligatori ha le sue responsabilità e tenta di fare marcia indietro, prima che arrivi la catastrofe…
In sé, il numero può non essere vistosissimo: che buco volete che creino 8mila avvocati che si cancellano dall’Albo in un Paese dove gli iscritti sono 243.680?
Contestualizzata nei territori, la cifra acquista invece un suo peso: a Roma gli iscritti sono circa 25mila. Ciò vuol dire che se gli 8mila rinunciatari fossero tutti romani, quell’ordine si ridurrebbe di un terzo. E questo ragionamento funziona di più a Milano, dove gli iscritti sono 19mila (quindi il 40% in meno) e a Napoli, dove ci sono circa 14mila toghe (il 60% in meno). Funziona sin troppo nei Fori di provincia, dove la defezione in massa può portare a percentuali paradossali del 150% o del 200% in meno.
L’emorragia c’è ed pure allarmante.
Ma i dati sono incompleti, perché queste statistiche si basano solo sugli albi esistenti e non comprendono le persone, di sicuro non pochissime, che, pur essendosi abilitate, e quindi risultano per legge in grado di esercitare, non si sono iscritte. E non comprendono neppure i sospesi, cioè gli iscritti che hanno congelato la propria iscrizione e si limitano a versare le quote associative ma non i contributi obbligatori alla Cassa forense, l’istituto previdenziale degli avvocati.
Gli 8mila hanno mollato la presa nel 2015 quindi abbiamo a che fare con un dato storico, che resta indicativo di una linea di tendenza ma non dice troppo sulle cause. La più seria, senz’altro è la povertà: in molte aree, specie quelle a basso reddito pro capite, neppure gli avvocati riescono a tirare la baracca, soprattutto se si considera che l’informatizzazione dei servizi legali e l’introduzione del processo telematico hanno introdotto altri due sbarramenti che, combinati assieme, risultano micidiali.
Da un lato, l’uso degli strumenti informatici rende necessari ulteriori costi di gestione, soprattutto per i software, che non sono il massimo dell’economia (anche qui ci sarebbe da vedere chiaro su alcuni dettagli del business, editoriale e non, dell’informatica ad uso professionale, ma non è questo il luogo per approfondimenti).
Dall’altro lato, la maggiore velocità e la maggiore potenza dei mezzi informatici creano forme di concorrenza nuove, in cui le competenze giuridiche spesso diventano il criterio minore di mercato, dove si innesca una corsa al ribasso.
Serve altro?
Sì. In parte ha ragione Nunzio Luciano, il presidente della Cassa Forense, quando afferma che tra gli 8mila fuggiaschi vanno computati anche quelli che hanno un altro lavoro, Ma ci sono altri numeri che rivelano una situazione tragica, come ammette Luciano: 80mila hanno rediti da fame e la situazione è più grave per i giovani che per gli anziani e per le donne rispetto agli uomini.
Parlare di crisi, a questo punto, è generico. Certo, il presidente Luciano cerca qualche colpevole, ad esempio, le grandi compagnie assicurative, che non pagano più nel rispetto dei tariffari minimi, ormai di fatto disapplicati. E c’è pure il problema dell’avvocatura obbligatoria: ad esempio gli avvocati d’ufficio vengono pagati pochissimo.
Ma l’avvocato Luciano sorvola sulle polemiche causate dal ruolo della Cassa Forense, che per molti giovani resta l’ostacolo più grosso. Non è un caso, infatti, che la maggior parte degli abbandoni si sia registrata in seguito all’introduzione del contributo obbligatorio all’ente previdenziale. Per il 2017 sono previsti tre contributi non leggerissimi: quello personale ammonta a 2.815 euro, quello integrativo a 710 euro, quello per la maternità a 84 euro. Anche se sono previste agevolazioni per i primi anni di iscrizione, la sostanza non cambia molto: si può essere giovani anche se non si è più new entry e comunque guadagnare così poco da considerare pesante l’esborso di queste somme. Tant’è che questo ostacolo di fatto è percepito da molti più pesante di quelli di diritto (esami di Stato più difficili e corsi di formazione obbligatori).
E questo ostacolo falsa un po’ i dati ottimistici pubblicati da Cassa Forense, secondo cui nel 2016 ci sarebbe stato un leggero aumento dei redditi degli avvocati, ricavato dalla lettura incrociata dei dati ricavati dalle dichiarazioni dei legali e delle fatturazioni Iva.
Questi pochi dati percentuali, che oscillano tra il 2 e il 3% in più a testa, sono disaggregati e non consentono di rispondere in maniera convincente a un quesito: quanto di questo aumento è dovuto al calo del numero degli avvocati? Detto altrimenti: non è possibile che le cancellazioni o i congelamenti, dovuti in buona parte ai contributi obbligatori (che sono diventati quasi una forma di imposizione a parte) non abbia consentito la spalmatura di parte del fatturato complessivo sui professionisti che, invece, continuano a resistere?
A questa domanda, lo ripetiamo, non è stata fornita risposta. Ma il fatto che si parli di redditi del 2016, quindi successivi alle cancellazioni del 2015, semina più di un dubbio.
Ma c’è da dire che di questa situazione, di sicuro non bella per una professione che è libera e quindi dovrebbe basarsi sui principi della concorrenza, hanno preso atto anche i vertici della Cassa: non a caso, lo scorso aprile, forse cedendo alle pressioni dell’Aiga (l’Associazione italiana dei giovani avvocati), l’istituto di previdenza aveva annunciato la cancellazione almeno del contributo integrativo minimo. E circa un mese fa è stata annunciata la sospensione per due anni, dal 2018 al 2020, di questo contributo.
Un piccolo sforzo che tuttavia sposta di poco il problema tutto italiano delle categorie professionali che mirano a diventare caste.
Il problema, per gli avvocati, sembra non finire qui: in seguito all’attuazione della legge 247 del 2012 (la riforma forense) il tirocinio per indossare la toga è ridotto a diciotto mesi: sei in meno rispetto ai due anni di prima ed è data la possibilità di svolgere sei di questi diciotto mesi non da laureati bensì da studenti universitari, sol che si certifichi di aver superato alcuni degli esami più importanti. In altre parole, si annuncia una pressione dal basso, cioè una megainfornata di giovanissimi, che, combinata con gli sbarramenti fiscal-previdenziali, rischia di stritolare i giovani.
A quando l’aggiornamento sulle nuove rinunce alla professione, un tempo gettonatissima, oggi così così e domani chissà?
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