Quale riforma? Gli italiani alla prova del voto
Conto alla rovescia per il voto, tra gli “apocalittici” del no e chi spera nel cambiamento. Ma la revisione della Carta fondamentale nasconde insidie e trabocchetti
La Costituzione, così com’è, non va più. Riformiamola. Anzi no. E parrebbe, sondaggi alla mano, che i giovani, propensi in maggior parte a votare no, si dimostrino più conservatori nei confronti di una riforma proposta da un governo guidato da un giovane, rispetto agli anziani, che vorrebbero cambiare non importa come.
Ed ecco che una riforma, nata male e proseguita peggio, è stata data in pasto ad elettori poco attrezzati a digerirla con un quesito che sembra uno spot: «Volete voi votare per la riduzione dei parlamentari e per la riduzione dei costi delle istituzioni?». Formula semplice e diretta. Peccato solo che in questo caso non si vendano dentifrici o detergenti intimi, col relativo contorno di figone e famiglie da Mulino Bianco a illustrare il tutto.
Roba all’italiana, ci mancherebbe: si era partiti da un compromesso, il Patto del Nazareno, tra Berlusconi e Renzi e si è finiti allo scontro in cui la propaganda ha raggiunto toni da curva sud e si fa gara a chi le spara più grosse. Peccato solo che molti voteranno “pro” o “contro” Renzi e, magari, si faranno persuadere soprattutto dalla telegenia dei rappresentanti dei due fronti contrapposti.
Certo, i benpensanti, quelli che andranno alle urne dopo essersi rimpinzati di libri e riviste per capire cosa andranno a votare al di là dello spot, storcono il naso: la Costituzione, per loro, non si tocca, anzi sì. Non si tocca perché è un totem, perché i “Padri della Patria”, reduci della Resistenza ci hanno donato la Carta Suprema più bella del mondo affinché non subissimo mai più dittature. Si tocca, anzi va rimossa, perché è un tabù, replicano quelli del sì, e i tabù generano complessi che bloccano il Paese. Si tocca perché, oggi, nel XXI secolo, occorre il “cambiamento”, perché non se ne può più della classe dirigente che ha promesso tanto e mantenuto poco.
Hanno ragione e torto entrambi. Solo che questa campagna referendaria è diventata una specie di schiacciasassi che ha polverizzato almeno cinquant’anni di costituzionalismo: le tesi dei parlamentaristi e dei presidenzialisti sono state tritate e rimescolate per farne slogan di grana grossa. E si è visto tutto e il contrario di tutto. Ad esempio, si sono visti i destrorsi schierarsi dalla parte del no, dopo aver sbavato appresso al presidenzialismo per decenni. Di più: si è assistito allo spettacolo, chi scrive vi ha assistito più volte, di destrorsi giovani e meno giovani, moderati e non, pronti a difendere la Costituzione con toni e modi simili a quelli di Prc. Il discorso è reversibile: non pochi “sinistri”, nel difendere il sì, hanno usato argomenti degni del Pri o, addirittura, della vecchia An.
Forse ha ragione Renzi, e lo ha ribadito da ultimo durante un’intervista-spot a Quinta Colonna sotto lo sguardo ironico e compiacente di Dal Debbio: il referendum non è su Renzi. Però il premier ha fatto di tutto per ribadire che, invece, lo è: ha promesso e fatto approvare nella legge di stabilità misure che dovrebbero sembrare popolari, ha dichiarato guerra per l’ennesima volta all’Ue sulla questione migranti, ha eliminato Equitalia, ha promesso il pogrom degli sperperi e di chi li fa, a partire dal Senato per continuare col Cnel e finire con quel variegato popolo che, tra eletti, consulenti e componenti prospera a vario (e spesso senza) titolo delle strutture degli enti locali.
Ha vellicato tutte le sensibilità più o meno su tutto e non sempre a torto: più degli stipendi dei senatori e dei consiglieri regionali, per i quali il Nostro ha promesso sforbiciate di malamorte, pesano sulle finanze pubbliche i costi delle strutture, su cui gli eletti costruiscono la prima quota del proprio potere personale che usano per farsi rieleggere, secondo una logica clientelare che ormai non conosce limiti, latitudini e longitudini.
Ma resta il fatto che questa è una riforma pasticciatissima, che dimostra come – e lo ha fatto capire non troppo tra le righe un vecchio volpone come Zagrebelsky – che si possono ottenere lauree, titoli accademici e ruoli di potere e continuare, nonostante tutto, a usare male l’italiano. Il problema non è il monocameralismo né la svolta presidenzialista dell’ordinamento, che dovrebbe risultare dalla combinazione tra l’Italicum e la rifoma, ma la mancanza di contrappesi e di garanzie che accompagnano ogni presidenzialismo, persino quelli di stampo sudamericano e quelli diffusi nei paesi postsovietici. Se proprio si voleva il presidenzialismo, che è un sistema politico di tutto rispetto se fatto con i suoi crismi, si doveva salvaguardare la rappresentatività del Parlamento. Invece no: il rafforzamento dell’esecutivo avverrebbe, se passasse il sì, solo attraverso una legge elettorale, l’Italicum appunto, che è a forte rischio di incostituzionalità. Il cambiamento, in altre parole, si verificherebbe fuori dalla Carta costituzionale e gli italiani si troverebbero a un bivio: o un sistema dopato da una meccanismo che crea maggioranze artificiali o, se la Consulta dovesse bocciare l’Italicum, un sistema inefficiente come adesso, solo con una camera meno funzionante.
Nel calor bianco delle polemiche il fronte del no ha fatto ricorso anche alla dietrologia: questa riforma, si è detto, è stata voluta dalle lobby e non a caso è spuntato il nome della Jp Morgan. Giusto. Però occorre tener conto di un dettaglio: i paesi a sovranità limitata come l’Italia (e tutti gli altri partner dell’Ue) devono tener conto anche dei pareri delle lobby finanziarie. E non c’è nulla di strano: l’Italia, con l’ingresso nell’Unione Europea, ha rinunciato alla sovranità monetaria. D’altronde, la sovranità era limitata anche durante la Prima Repubblica e gli equilibri del vecchio parlamentarismo ressero proprio grazie alla doppia ipoteca – quella di diritto statunitense e quella di fatto sovietica – sulla nostra democrazia.
Tutti i sistemi si logorano e quello italiano non fa eccezione. Anzi. D’altronde, i miti fondativi della Repubblica sono lontani nel tempo e quasi non esistono più (si pensi al lavorio del revisionismo storiografico sulla Resistenza, che alla fine ha fatto breccia anche a sinistra). Eppure non si può non apprezzare la sobrietà del Paese povero che eravamo a fine anni ’40 e il rigore dell’Assemblea costituente che elaborò la Carta che ci apprestiamo a modificare. Il paragone con l’attuale campagna referendaria, in cui Renzi e i suoi avversari le provano tutte per assicurarsi la sopravvivenza politica, è impietoso. Non si può blindare un Paese in nome delle riforme, né condannarlo al caos perché si ha paura di ritoccare qualcosa.
E soprattutto è indecoroso, lo si è fatto di recente, invocare il rischio di fallimenti bancari per avallare un cambiamento che in realtà cambierebbe poco nella quotidianità dei cittadini, tranne, forse, di quelli che hanno investito i risparmi negli otto istituti di credito che la bocciatura del referendum seppellirebbe (ma come ciò possa avvenire nessuno lo ha spiegato).
A breve il voto. Ma che sia consapevole: sceglieremo, come cittadini, tra la lobby finanziaria che ha sostenuto Renzi e ancora scommette su di lui e una classe politica decotta. Se vincesse il no, salveremo di sicuro le garanzie liberali della nostra democrazia, ma anche chi non le merita.
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