Caso Villella, tutte le falsità e le ingiurie di Pino Aprile
Il giornalista pugliese perde le staffe e svelena alla grande contro tutti dopo la sentenza di Catanzaro. Possibile che il meridionalismo sia sceso così in basso?
Una buona occasione per tacere persa. L’ha sprecata Pino Aprile, che pure era stato piuttosto abbottonato nella fase più delicata (il processo davanti alla Corte d’appello di Catanzaro) dell’affaire Villella.
Giusto per non deludere i propri lettori, molti dei quali militano nel Comitato tecnico scientifico “no Lombroso”, l’ex direttore di Gente si era sbilanciato un po’ nel suo recente Carnefici (Piemme, Milano 2016) con una previsione sulle sorti postume di Cesare Lombroso: «A breve sarà dimostrato che era un criminale».
Dopo la sconfitta giudiziaria del Comune di Motta Santa Lucia e del Comitato ecc. ecc. il giornalista pugliese ha perso ogni ritegno e si è messo a svelenare in un modo che lascia increduli.
Lo ha fatto con un post firmato e pubblicato sulla pagina Facebook Terroni di Pino Aprile e quindi condiviso sulla pagina del Comitato ecc. ecc..
L’articolo di Aprile è di rara virulenza e lascia basiti (ecco il link al pezzo: http://bit.ly/post-aprile-facebook). Il Nostro, dopo una raffica di contumelie e inesattezze, lancia una paradossale provocazione: si apra anche un museo lombrosiano che contenga i resti dei bersaglieri massacratori per dimostrare che anche loro erano delinquenti nati.
A tutto c’è un limite e Aprile l’ha varcato abbondantemente: passi insistere in tesi smentite in sede scientifica e rigettate in sede giudiziaria; è lecito anche criticare una sentenza, ma da qui a rigettarla solo perché ha dato torto alla parte per cui si fa il tifo ce ne corre. A meno che Aprile per Sud intenda non un luogo geografico e una cultura bensì la curva dello stadio.
Vale la pena di riportare l’incredibile incipit del post per far capire in che condizioni possa ridursi il giornalismo quando i giornalisti perdono l’autocontrollo.
«La Corte d’Appello di Catanzaro ribalta la sentenza di primo grado: il cranio di Giuseppe Villella (il “brigante” ladro di galline) resta al Museo degli orrori di Torino, intitolato al degno scienziato che si vuol celebrare, Ezechia Lombroso detto Cesare.
Quel cranio – continua Aprile – è un “bene culturale”, perché dimostra che i meridionali, specie i calabresi, sono delinquenti per patrimonio genetico, nascono criminali? Qualcuno potrebbe dedurne che i giudici hanno ritenuto che non si possa sottrarre questa importante affermazione ai bambini italiani che visitassero quella esposizione di pezzi di cadaveri. Ma sarebbe un sillogismo frettoloso.
Sono d’accordo con la Corte d’Appello, il cranio resti lì e l’ossario spacciato per museo resti aperto. Perché, nella mia lettura della cosa, questa è la fotografia di come si volle unificare l’Italia e di come la si vuole intendere unita: resti umani di terroni a diffamazione incorporata esposti a Nord (oh, certo non è la loro intenzione, ci mancherebbe) e nomi, busti, monumenti dei loro massacratori a lordare piazze, strade, edifici pubblici al Sud e pagine dei libri di storia».
In tre paragrafi l’autoproclamato storico ne combina di tutti i colori: fa allusioni antisemite (evidentemente non sgradite a quelli del Comitato ecc. ecc.) col riferimento ironico all’origine ebraica di Lombroso, sfiora il vilipendio della Corte d’appello di Catanzaro a cui attribuisce surrettiziamente simpatie per le tesi razziste attribuite a Lombroso e, ma questa non è una novità, diffama il Museo torinese.
Tutte cose che a un giornalista normale avrebbero procurato un bel po’ di rogne. E non perché il diritto di critica non sia sacrosanto, ma perché tra critica e insulto c’è un confine netto che nessuno deve superare, specie se questi insulti si fondano su accuse non provate.
Prima accusa: la teoria di Lombroso sarebbe la codificazione del pregiudizio antimeridionale. Falso: basta scorrere le opere criminologiche dello studioso veronese per capire che non c’era nessuna sua ossessione antimeridionale. Lombroso, al contrario, scrisse un bellissimo libro sulla Calabria in cui anticipava alcune riflessioni dei classici del meridionalismo (quello vero). Basti leggere, invece di inventare (ma capisco che leggere un libro sia più faticoso che poche righe su un post di Facebook), cosa scrisse nel suo In Calabria (di recente riedito da Rubbettino nella collana diretta da Vittorio Cappelli) dove affermava che nel territorio calabrese «germina nascosto il seme di nobilissimi ingegni e di cuori magnanimi, antichi» (p. 113). Dove elogiava «le dolcezze dei versi e la delicatezza di modi dei Calabri» (p. 61), la «naturale vivacità di questi simpaticissimi popolani» (p. 68). Dove non mancava ad ogni pie’ sospinto di magnificare «l’arte del poetare che vi cresce come l’olio, antica, spontanea, bellissima» (p. 20), il «profumo stupendo di pensosa malinconia» che pervadeva i canti tradizionali (p. 22). Il «soave balsamo di poesia che ha un suo proprio, inimitabile sapore e profumo». I «versi bellissimi» di tanta poesia popolare (p. 40). «L’eccellenza di quel dialetto e l’arte dei suoi poeti» (p. 56). I «fecondi elementi» tipici di una popolazione fatta di «fort’ingegni» (p. 41). L’animo «pieno d’intelligenza, di vita, e di un senso estetico delicatissimo, che si rivela nei proverbi e nelle canzoni degne dell’antica Grecia» (p. 43). Quella «singolare finitezza di modi che tu trovi anche nel più ineducato colono, e che ti fa credere, direbbe Heine, di parlare a Senatori Romani vestiti alla villana», «quella eleganza veramente meravigliosa delle loro canzoni popolari e dei loro proverbi» (p. 44). Poi, certo, non mancava Lombroso (con acuto senso meridionalistico e avanzate istanze socialiste) di rilevare dei problemi anche drammatici che vivevano «quei poveri nostri fratelli» (p. 73), e certo non farà piacere ai nostri anacronistici fautori dei Borbone leggere come Lombroso attribuisse molti mali ai «danni del dominio borbonico in Calabria» (p. 48). Mentre sorprenderà gli stessi neo-borbonici leggere come egli condannasse implacabile le élites politiche, i nobili, il latifondo, ma trovasse giustificazioni per il brigantaggio, scrivendo che «tante stragi saccheggi ed infamie rispondevano ad altre ingiustizie» (p. 67).
Inoltre, non è provato – anzi sembra vero il contrario – che le ossa conservate nel Museo torinese siano in gran parte di briganti o di meridionali, mentre il grosso proviene da latitudini settentrionali (com’è ovvio, vivendo Lombroso a Torino).
A voler cercare quel che cerca Aprile, cioè il pregiudizio antimeridionale su basi pseudoscientifiche, occorrerebbe rivolgersi altrove. Cioè alle opere di Alfredo Niceforo, che cercò (lui sì) di applicare le teorie di Lombroso alle popolazioni del Sud. Già, ma Niceforo non era un veronese di origini ebraiche, bensì siciliano.
Seconda accusa: il cranio di Villella sarebbe stato la prova, per Lombroso, dell’innatismo criminale dei calabresi. Falso: Lombroso cercò prove nelle ossa, non nei territori. In altre parole, non legò l’innatismo criminale a una provenienza geografica. E ripeto l’invito a leggere le sue pagine alate sulla cultura popolare calabrese.
Se vi fossero ancora dubbi, basta solo sfogliare le opere principali dello scienziato veronese, ristampate da Hoepli anche in e book, di sicuro meno costosi dei libri di Aprile.
Terza accusa, intuibile dalla connessione tra il papà dell’antropologia meridionale e i massacratori: Lombroso sarebbe stato una sorta di ideologo di una presunta repressione antimeridionale. Falso: lo scienziato iniziò a elaborare le sue teorie a repressione del brigantaggio conclusa e non dedicò particolari attenzione ai briganti (che, intendiamoci, imperversavano nelle sue opere, ma in compagnia di tante altre categorie e ricordando comunque cosa ne scrisse, cercando di comprendere il fenomeno, nel suo In Calabria).
Si potrebbe sorvolare su questo faldone di inesattezze, se fossero inesattezze innocue. Il problema è che queste inesattezze, questo cumulo di balle prive d’ogni fondamento storico, ispirano una campagna di odio e di rivendicazioni non dissimili dalle tesi deliranti di certi ideologi balcanici che imperversarono durante le guerre civili che sconvolsero le coste orientali dell’Adriatico.
Per fortuna il meridionalismo non è Pino Aprile e si può amare il Sud vivendone i problemi (e affrontandoli, a volte anche subendoli) senza cercare la causa del male in improbabili e semplicistiche ricostruzioni del passato. Lo hanno fatto i grandi meridionalisti. Lo fanno tanti giornalisti che corrono rischi tutti i giorni per denunciare le storture del presente. Uno come Aprile, che continua a rimestare in certi torbidi, forte di una carriera negata dalla crisi a gente più preparata, potrebbe essere un esempio scoraggiante. Già: perché correre rischi inutili quando è più facile arricchirsi e talvolta perfino sfilare nelle università meno attrezzate culturalmente accusando chi non può reagire, perché morto almeno un secolo fa?
Per fortuna, e la vicenda di Villella lo ribadisce, i fatti contano. E sono più forti delle chiacchiere e dei veleni. Che il povero Villella riposi in pace. Con buona pace di Pino Aprile e dei suoi improbabili epigoni.
Saverio Paletta
Per saperne di più:
La conclusione del processo davanti alla Corte d’Appello di Catanzaro
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