Delitto di Ferrara, parla la criminologa
Chiara Penna: i due assassini non sono folli, anche se pensarlo ci aiuta a esorcizzare la paura del male che si nasconde nella nostra quotidianità
La coppia uccisa nel sonno a colpi d’ascia dal figlio e dall’amico è solo l’ultimo di una lunga serie di parricidi avvenuti in Italia negli ultimi anni.
Come per ogni efferatezza, lo sgomento di fronte agli omicidi in famiglia è tale da chiamare spesso in causa la follia o il raptus.
E lo si fa solo per il rifiuto e il timore di dover trovare una spiegazione al perché un figlio possa decidere di condannare a morte i propri genitori, colpevoli di troppi rimproveri, affidare l’esecuzione della pena capitale ad un amico dietro compenso, attendere nell’altra stanza che l’incarico venga portato a termine ed occuparsi poi di trascinare i cadaveri in cucina ed in garage coprendone il volto con della plastica per non guardare in faccia le vittime.
In realtà, però, il raptus omicida non esiste, anche se è un termine che piace alla stampa.
Allo stesso modo, chiamare in causa la follia serve solo ad allontanare il timore, la preoccupazione e persino il rifiuto di accettare il senso di sfiducia che si generano automaticamente quando si realizza che le persone per noi più pericolose sono spesso quelle alle quali siamo legati da un rapporto affettivo.
Per quanto lo si voglia negare, infatti, una motivazione (non una giustificazione, si badi bene) a queste azioni aberranti c’è sempre.
Uccidere i genitori (o l’intera famiglia, perché se il nucleo familiare fosse stato composto da più soggetti con molta probabilità sarebbero stati uccisi tutti) ha un significato ben preciso: strappare le proprie radici.
Non esistono in natura altri esseri che uccidono chi li ha messi al mondo. Molti animali uccidono i propri cuccioli, ma nessuno di loro i propri genitori.
Solo gli esseri umani lo fanno, perché sono gli unici che avvertono inconsapevolmente il desiderio di liberarsi da una forte dipendenza dalle figure genitoriali, che può essere risolta solo dalla loro eliminazione fisica.
È certo che alcuni autori di questi delitti siano da collocarsi assolutamente nell’area della follia, trattandosi di soggetti affetti da gravi patologie mentali.
Ma per quanto spaventi, molti di questi assassini vanno invece collocati nell’area della normalità.
Nel primo caso la motivazione ad un gesto così estremo va ricercata nella schizofrenia o nella depressione maggiore con elementi psicotici, nel secondo, invece, le ragioni sono del tutto razionali: vendetta di fronte a maltrattamenti e vessazioni oppure violenti litigi che si concludono in omicidi preterintenzionali.
Tuttavia, il caso di Ferrara va ricondotto a una terza categoria, posta tra la normalità e la follia e che, per questo, sicuramente impressiona molto di più: il normoidismo.
Questo delitto, infatti, risulta più esecrabile per le modalità attraverso le quali si è sviluppata l’azione omicidiaria: una motivazione apparentemente futile, una organizzazione, la premeditazione e il coinvolgimento di un soggetto terzo alla famiglia.
Perciò tutti questi elementi messi insieme fanno pensare che si sia in presenza di caratteristiche personologiche probabilmente abnormi, ma non riconducibili all’infermità mentale che, nel caso specifico, possono aver creato un incastro di personalità disturbate che insieme hanno generato una miscela esplosiva di elevato potenziale criminogenetico.
Ed è per questo che spesso i soggetti normoidi agiscono in coppie unite da un legame molto forte che alimenta il desiderio di liberarsi dal controllo dei genitori, accusati di impedire il raggiungimento della felicità.
È accaduto a Novi Ligure e si è verificato in modalità simili a Ferrara.
Val la pena ripetere: nel caso dei folli l’omicidio è il sintomo di una malattia, nel caso del normoide no. Al massimo è possibile cogliere nel soggetto dei segnali di disagio o comunque dei fattori indicativi di un comportamento violento, anche se spesso è difficile individuarli, perché si è di fronte a ragazzi con elevate qualità cognitive ma immaturi sul piano affettivo e pulsionale.
Ciò che bisognerebbe comprendere quando si è di fronte a un fatto così violento che matura in ambito familiare è che le persone non sono né buone né cattive e che il prevalere dell’una o dell’altra parte della personalità dipende dalle occasioni, dai contesti sociali, dagli stati psicologici e dai momenti di frustrazione.
Siamo tutti potenzialmente vittime e autori di fatti aberranti, perché il male può essere ovunque e il lato oscuro della personalità è presente in ognuno.
Riconoscerlo vuol dire salvarsi.
Chiara Penna
*Avvocata penalista e Criminologa
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