Una valutazione a freddo sul caso Riace
Mentre si placano i clamori della manifestazione di solidarietà al sindaco Lucano e la parola torna ai tecnicismi delle aule di giustizia arriva il momento delle riflessioni. Nel mirino da tempo, il primo cittadino del piccolo Comune calabrese, si prepara ad affrontare una battaglia legale non leggera. Ma c’è il rischio che il vero obiettivo sia il sistema di accoglienza che ha trasformato il paesino in un modello di integrazione funzionante e ammirato, soprattutto all’estero
Da modello a caso: è possibile che debba essere questa la parabola (umana, politica e amministrativa) di Mimmo Lucano, prima incensato da tutti e ora demonizzato? Ed è possibile pure che questa debba essere la parabola di Riace, il paesino della costa ionica reggina, sede da circa vent’anni di uno dei più singolari (e sostanzialmente riusciti) esperimenti di accoglienza e di integrazione?
Forse sì. Ma va pure detto che i casi esistono perché c’è chi li monta.
Non ci si riferisce, va da sé, alla Procura di Locri, che ha indagato Lucano per due motivi: perché c’è chi lo ha denunciato e perché l’azione penale è obbligatoria (e guai se non lo fosse nel nostro Paese).
Certo, centotrentasei pagine di ordinanza non possono essere piene solo di elucubrazioni, tanto più che il procuratore Luigi D’Alessio, solo omonimo della star neomelodica, è persona serissima e guida uno staff normalmente impegnato in cose più gravi dei presunti reati e dei presunti abusi di Lucano.
È bene chiarire che le ipotesi di reato – favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, abuso d’ufficio e associazione a delinquere semplice – ci sono e sono formulate con correttezza. Ma va detto pure che la correttezza degli inquirenti non è solo giuridico-formale: in più punti dell’ordinanza è evidenziato che molti comportamenti borderline del sindaco di Riace sono dovuti più a sciatteria e poco rispetto delle regole che ad altro. Ad esempio, in alcun punto dell’ordinanza di Locri c’è una traccia di presunti arricchimenti personali.
Se dolo c’è, sembra dovuto solo (o soprattutto) a motivazioni umanitarie. Le stesse che sembrano aver spinto Lucano a forzare le norme.
Innanzitutto, quelle inapplicabili della Bossi-Fini, su cui i tanti, improvvisati leoni da tastiera che si spacciano per giuristi dovrebbero riflettere a fondo. Poi quelle che regolano i finanziamenti per i richiedenti asilo e per i centri d’accoglienza.
In entrambi i casi, veri e propri pasticci giuridici, creati sotto i pungoli delle tante emergenze a cui ha dato luogo la sostanziale incapacità e impreparazione del nostro sistema di fronte alle pressioni migratorie.
Detto altrimenti, Lucano avrebbe violato norme fatte apposta per essere violate.
E questo apre un cortocircuito piuttosto grosso nel nostro sistema: il conflitto tra la legalità e la legittimità. Da un lato, norme di difficile applicabilità a cui neppure il recente decreto voluto da Salvini apporterà migliorie. Dall’altro lato, un insieme di valori, molti dei quali senz’altro di sinistra: la solidarietà, l’accoglienza e l’integrazione. A questi ne vanno aggiunti altri che, senza troppi problemi, dovrebbero interessare la destra (o quel che ne resta): l’ordine pubblico, la sicurezza e – perché no? – il rigore.
Non sembri un paradosso: il modello Riace, partendo da istanze di sinistra, aveva finito col soddisfare esigenze di destra. Ci si riferisce, ovviamente, alla sinistra e alla destra civili e non alle loro propaggini caricaturali. Già: assicurare ai migranti condizioni di vita quantomeno dignitose significa prevenire le derive criminogene che la gestione dell’immigrazione comporta spesso nel nostro Paese. Significa togliere potenziali schiavi dai campi e altrettanto potenziali spacciatori e prostitute dalle strade.
In altre parole, ordine pubblico e sicurezza. E al riguardo occorre dire che non risultano su Riace nelle cronache degli ultimi venti anni gli scandali e le rivolte che si sono verificati altrove. Non risultano gli episodi vergognosi dello sfruttamento del lavoro dei richiedenti asilo, (mal)trattati in nero solo perché neri (i calabresi dovrebbero ricordare i casi di Spezzano Sila e di Amantea). Non risultano le vicende dei centri inidonei ridotti a lazzaretti non per sovraffollamento ma per l’incapacità di chi li gestiva. Non risultano storie vergognose come quella di Isola Capo Rizzuto.
Il sistema di Riace, da questo punto di vista, ha funzionato bene. Con l’unica pecca, forse, di essere antieconomico e di aver messo a durissima prova le casse del piccolo Comune reggino, noto soprattutto per il rinvenimento dei bronzi e comunque destinato a languire nello spopolamento progressivo.
Da modello a caso, Riace è entrato tre volte al centro dei riflettori. Senz’altro durante gli anni della gloria, quando Lucano era rispettato anche a destra e strappava gli applausi alla stampa internazionale, che in parte continua a difenderlo. Poi durante la caduta rovinosa del sindaco. Infine, qualche giorno fa, grazie alla manifestazione di solidarietà svoltasi a Riace.
Una manifestazione che suona un po’ come una doccia fredda per quella fetta di opinione pubblica, soprattutto di sinistra, che ha scommesso sin troppo sulla magistratura in nome di un legalitarismo altrettanto malinteso ed equivoco di quel garantismo sbandierato da certa destra. Una volta tanto, la vecchia sinistra autonoma ed extraparlamentare ha prevalso su quella sinistra manettara che si nutre ancora del mito di Tangentopoli. E non a caso, in piazza è sceso Adriano Sofri assieme a tanti militanti e uomini simbolo di certi ambienti.
Alla fine li hanno censiti in circa seimila, da tutte le parti d’Italia e la scena clou (Lucano che si affaccia dal balcone e saluta col pugno chiuso) ha fatto il giro del mondo.
A freddo occorre chiedersi se tutto questo abbia giovato davvero a Riace e al suo sindaco. E la risposta potrebbe essere negativa: non è bello trasformare in valore di parte una realizzazione che dovrebbe essere per tutti. Certo, a Riace è andato chi ha creduto davvero nel sindaco Lucano e chi sventolava le bandiere rosse e arcobaleno ha avuto tutto il diritto di manifestare. Ma un po’ di società civile in più, senza colori di sorta, non avrebbe davvero guastato.
Magari anche per ricordare che non è bellissima l’immagine che lo Stato riesce a dare spesso nel Profondo Sud: autoritario quando c’è ma di solito assente o al più sciatto.
Non è bello assistere allo spettacolo di un ministro dell’Interno che non riesce proprio a smettere di fare il leader e tifa senza ritegno.
Non meraviglia, invece, il clamoroso dietrofront della europarlamentare pentastellata Laura Ferrara, che a giugno plaudiva e difendeva Lucano e ora gli punta il dito in nome del legalitarismo: quando si è privi di spessore politico si finisce con l’obbedire alla ragion di partito, anche quando quest’ultimo si definisce Movimento e antipartito. Ma tant’è: essere la casta degli anticasta condiziona tutto, anche il linguaggio e la comunicazione pubblica.
Forse alla fine della giostra Mimmo Lucano risulterà reo. Ma da qui a definirlo delinquente ne corre. Ci si augura solo che gli inquirenti e i giudici non condannino tutto il modello Riace: farebbero un favore a quei centri di accoglienza privati le cui malefatte sono state censite proprio da un giornalista di destra, Mario Giordano, in un pamphlet che ha fatto discutere non poco: Profugopoli. I 30 euro al giorno dei 160 migranti presenti a Riace poco prima dell’arresto del sindaco non portano molto alle casse di un Comune, soprattutto se piccolo. Possono invece voler dire tantissimo, in termini di profitto, per le aziende, spesso costituite ad hoc da persone impreparate e senza troppi scrupoli, per le associazioni e le cooperative che fanno impresa sull’accoglienza e comprimono i costi (umani) per allargare le forbici dei profitti.
C’è davvero altro da aggiungere?
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