Cofone e Cetto: forse non si somigliano, ma parlano la stessa lingua
Finalmente la politica calabrese fa ridere davvero. E non per cose cattive…
Ma l’ignoranza, anche se in buona fede, non è mai innocua
Siamo sicuri che saper parlare sia un optional di cui si può fare a meno?
Tutta l’Italia ha riso della performance di Angelo Cofone. E meno male: di solito si ride delle cose calabresi solo quando si pensa a Cetto La Qualunque, che poi è interpretato da un siciliano dop, cioè Albanese. Stavolta, invece, siamo stati bravi perché non abbiamo avuto bisogno di mediatori che interpretassero le nostre sgrammaticature per restituirle al mondo. Finalmente, anche noi lottiamo alla pari coi leghisti più beceri dell’ala bossiana e cogli indipendentisti veneti. L’italiano sappiamo mettercelo sotto i piedi come e più di loro.
Detto questo, il paragone tra Cofone detto Frosparo e Cetto finisce qui. Angelo Cofone è una brava persona con un passato simile a quello di tanti calabresi onesti: anni di duro lavoro “fuori”, perché a casa ci si può fare un sedere così e fare la fame lo stesso, e poi il tentativo di mettersi in proprio con una piccola azienda di trasporti. Nulla a che fare con i tanti Cetto che allignano nelle istituzioni e affamano quelli come lui (e non solo). Ma il problema è un altro: La Qualunque e Cofone parlano la stessa lingua. Non che avere una dialettica a prova di bomba sia importante, per carità, visto che la Calabria è stata malconciata anche dai retori che, in passato, gettavano fumo negli occhi con parolone roboanti e comizi fiume e ora studiano dizione e power speaking perché l’effettistica è tutto. Però di fronte a tanti svarioni non può non venire in mente una battuta di Gian Maria Volonté: «Non è l’italiano, è il pensiero».
Già: non saper parlare significa quantomeno fregarsene se il prossimo ci capisce. O peggio, significa non conoscere ciò di cui si sta parlando.
Il problema, in Calabria, non è leggerissimo: i Cetti – veri e finti, onesti e non – sono la regola in tutte le assisi istituzionali dal Pollino in giù, al punto che qualsiasi cronista, a meno che non somigli troppo ai soggetti di cui si occupa, potrebbe redigere più di un bestiario. Di più: la differenza tra la performance di Frosparo e le tante altre, non dissimili, che si sono verificate in molti angoli della Calabria è consistita in uno smartphone. Cioè nella prontezza di riflessi dello spettatore che ha filmato l’esibizione “antioratoria” del malcapitato candidato.
Ma come si è arrivati a questo punto? La risposta è banale e, con tutta probabilità, irritante per i campanilisti: si è scesi così in basso grazie all’attuale sistema di autonomie, che ha trasformato la gestione della cosa pubblica in un affare condominial-familiare. E i calabresi, abituati a vivere (e sopportare) anche lo spopolamento, quasi non se ne rendono conto. Facciamo l’esempio di Acri: una testata online locale la definisce «popolosa», il Sole 24Ore, più correttamente, parla di «piccolo centro», perché i suoi nemmeno 20mila abitanti non ne fanno una metropoli. Questa sottopopolazione ha due conseguenze: il sottosviluppo economico e l’arretratezza culturale. E la politica è la prima vittima illustre di queste piaghe.
Già: se ci si vota tra parenti, vicini di casa e amici (o peggio, “amici degli amici”) che bisogno c’è di premiare le competenze e la cultura? Se per essere eletti basta avere un buon “giro” o un parentato numeroso e compatto, a che serve sudare per procurarsi quel po’ di cultura e di competenze di cui i nostri disastrati enti locali hanno un bisogno disperato?
Se Cetto La Qualunque e Frosparo parlano la stessa lingua e siedono nelle stesse assisi è perché le persone preparate scappano via o sudano le classiche sette camicie per mettere d’accordo il pranzo con la cena. Perché la politica, ridotta a poca cosa nel nome di un “fare” sempre meno produttivo, non si limita a espellere chi ha il torto di leggere un libro o di aver passato gli anni belli a studiare: ora gli sbarra automaticamente le porte senza remissione alcuna. E i risultati di tanta ignoranza al potere per anni, diventata incontenibile grazie al sistema di autonomie vigente dai primi ’90, sono sotto gli occhi di tutti: borghi in progressiva desertificazione ma pieni di opere inutili e quattrini bruciati in sagre e musei dedicati al mondo contadino del tempo che fu. Purtroppo la saggezza dei lavoratori della terra è sparita da un pezzo nelle popolazioni calabresi. È rimasta la grettezza. E si vede.
Saverio Paletta
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