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Bufale online, dopo le polemiche si rischia l’insabbiamento

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Da oltre un mese non si ha notizia del disegno di legge contro la falsa informazione in rete promosso dalla senatrice Adele Gambaro. Secondo molti sarebbe un’iniziativa potenzialmente liberticida. Ma la realtà è ben diversa: mentre il giornalismo vero annaspa anche in rete tra mille difficoltà, i “bufalari” godono di ottima salute, come dimostrano i tanti banner sui loro siti e fanno danni. Nella “antinformazione”  digitale c’è di tutto: dai maniaci del complotto ai revisionisti ad oltranza. E non mancano gli integralisti di ogni risma e credo. Qualche regola in più sarebbe opportuna…

Dopo alcuni clamori, la vicenda del ddl antibufale online, promosso dalla senatrice Adele Gambaro, ex grillina passata in Ala, si è sgonfiata. Delle due l’una: o questo ddl non è poi quel grande attentato alla democrazia paventato da tanti, oppure in molti sperano che il silenzio, unito alla consueta lentezza dei lavori parlamentari, affossi l’iniziativa.

Ma siamo proprio sicuri che questo ddl limiti la libera circolazione delle idee?

La risposta è banale, checché ne pensi Beppe Grillo, che a suo tempo ha svelenato non poco nei confronti della sue ex seguace: no. A meno che non si voglia credere che sparare bufale sia un diritto costituzionalmente protetto e meritevole di tutela al pari di chi si sforza di condurre un dibattito pulito basato sull’interpretazione dei fatti.

Colpisce, al riguardo, il sostanziale silenzio dell’Ordine e del Sindacato dei giornalisti. Qualcuno, forse, ha temuto di passare per difensore della casta (stampata ma anche digitale)? Oppure, con più approssimazione, si è temuto di legittimare l’ennesimo meccanismo censorio che la nostra classe politica avrebbe tentato di azionare?

Al lettore la risposta. Qui ci si limita a sottolineare un dettaglio di non poco conto: il contestato (essenzialmente dai pentastellati) ddl Gambaro risulta, paradossalmente, un potente strumento di tutela dell’informazione, professionale e non, proprio perché tenta, sulla scia di un importante precedente tedesco, di regolamentare quella vasta serie di attività svolte dai blogger e dai semplici navigatori attraverso siti web e social network. Il legislatore, al riguardo, è chiaro nell’escludere dalla nuova normativa il giornalismo online e le testate registrate e rende punibili solo i cittadini che diffondano notizie false e in grado di fomentare campagne d’odio o, peggio, di mettere in discussione i fondamenti della democrazia.

Si è voluta privilegiare la stampa digitale? Proprio no: i giornalisti o quelli che scrivono su testate registrate e sotto la supervisione di giornalisti continueranno a correre i rischi di sempre, che (grazie a una normativa vecchia, disordinata e inadeguata e a una giurisprudenza liberticida) non sono pochi né leggeri. Ma almeno non dovranno subire la concorrenza sleale di chi fa informazione senza assumersene gli oneri e i rischi professionali. Ciò non vuol dire che il blogging debba essere riservato ai giornalisti: tutt’altro, visto che molti addetti ai lavori denunciano lacune spaventose e, al contrario, che molti blogger danno i punti ad altrettanti professionisti dell’informazione, a partire dall’uso corretto dell’italiano. Significa semplicemente che l’informazione deve avere delle regole concrete e praticabili, senza le quali si scade nella babele delle lingue e nel caos dei concetti. Che è quel che poi accade oggi.

Il web, basta una semplice surfata per capirlo, abbonda di stranezze: si va dalle pagine, ormai classiche, dei complottisti (al riguardo, è andata molto di moda la storia delle scie chimiche) a quelle di gruppi politicamente orientati in tutti i sensi, tranne quelli della ragione e quello comune. Ed ecco che gli antimoderni accusano la tecnologia con mezzi hi tech. Ecco che gli integralisti cattolici, senza che tra l’altro la Chiesa ne sappia alcunché e approvi, vedono il diavolo dappertutto e i reazionari fiutino la massoneria ovunque, anche dove non ha interesse ad essere. In alcuni casi il discorso dei bufalari è andato oltre: si pensi ai consensi ottenuti da alcuni gruppi di orientamento neoborbonico che hanno amplificato le bufale propalate altrove da alcuni sedicenti storici e hanno lanciato campagne mediatiche impressionanti, con tanto di esiti giudiziari. È il caso, per fare un esempio, del cosiddetto Comitato tecnico-scientifico “No Lombroso”, farraginoso nei concetti come nel nome. Ma è solo un esempio tra tanti, che vale a far capire quanto possa essere labile il confine tra la controinformazione che è un’attività nobilissima e utile se fatta secondo i crismi, e la disinformazione, che è sempre pericolosa e dannosa e il più delle volte inutile.

Per le medesime cose, un giornalista o un editore digitale rischia tanto, mentre un semplice blogger può comprare uno spazio su un server straniero, magari con sede in un paradiso fiscale, e divertirsi alla grande. E non solo: se ci si fa caso, molti di questi siti sono carichi di banner pubblicitari, segno che sparare palle in rete paga più che ricostruire un fatto. Paga anche fare l’opposto, cioè improvvisarsi censori e, al di fuori di qualsiasi legittimazione pubblica, dare addosso all’untore e, senza qualifiche di alcun tipo, smantellare le bufale. È il cosiddetto debunking che, lasciato a sé stesso, può essere altrettanto pericoloso che fabbricare le cosiddette fake news. Detto altrimenti: è vero che nessuno ha il diritto di fabbricare bufale, ma è altrettanto vero che nessuno, altrettanto poco qualificato, dovrebbe avere il diritto di puntare il dito. Purtroppo c’è da dire che, finora, la legge dice poco o nulla. E perciò è facilissimo per gli smanettoni del web fare e disfare, con esiti paradossali: chi apre un giornale online deve registrare la propria creatura in Tribunale e inserire la cosiddetta gerenza, cioè l’indicazione della sede legale del sito e indicarne i responsabili; chi invece apre un blog può usare generalità false e restare impunito il più delle volte o, almeno, finché non lo becca la Polizia postale.

Questo sebbene il blogger faccia un’attività in fin dei conti simile a quella dei giornalisti: fornire informazioni. Peccato che i doveri finora non siano stati eguali. Si tratta, perciò, solo di raddrizzare una situazione paradossale, che non riguarda solo l’informazione: si pensi, per fare un altro esempio, che ha più doveri il contadino che vende la propria verdura al mercato che non il blogger. Il primo deve far sapere dove coltiva e cosa usa per coltivare, il secondo, finora, non è tenuto neppure a far sapere chi sia. Ciò è davvero chiedere troppo all’articolo 21 della Costituzione, che di solito viene invocato in queste circostanze.

 È tempo di rimedi, perché l’attuale stato delle cose garantisce solo una cattiva informazione di massa. Possibile che gli addetti ai lavori continuino a tacere? 

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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