Parla Caligiuri: ci salveranno gli 007?
«Finiamola con le dietrologie, l’intelligence è la nostra risorsa per difendere la libertà»
«Lasciamo stare le dietrologie: la sicurezza è soprattutto una questione di conoscenza». Mario Caligiuri, professore dell’Università della Calabria, che ha alternato la ricerca, sfociata in una bibliografia copiosa, alla passione politica (è stato amministratore a vario titolo della sua Soveria Mannelli e assessore regionale alla Cultura della Calabria, coordinando i suoi omologhi a livello nazionale) si dedica da anni allo studio dell’intelligence con l’obiettivo dichiarato di farla diventare anche in Italia una disciplina accademica.
Caligiuri ha curato le opere di Francesco Cossiga dedicate al mondo degli 007 e ha ideato e dirige il primo Master sull’intelligence del nostro Paese, promosso con la collaborazione, appunto, del presidente emerito oltre che di Marco Valentini. Questo corso si rivolge soprattutto agli operatori di pubblica sicurezza (e il successo riscosso dall’iniziativa è un sintomo delle poche opportunità di conoscenza di questa disciplina anche tra gli addetti ai lavori e le classi dirigenti nazionali). Il prof recentemente ha dato fondo alla propria penna e nell’ultimo anno ha sfornato una serie di libri dedicati al tema. Li citiamo in ordine cronologico: Intelligence e scienze umane. Una disciplina accademica per il XXI secolo (Rubbettino, 2016), Cyber Intelligence. Tra libertà e sicurezza(Donzelli, 2016), Intelligence economica e guerra dell’informazione. Le riflessioni teoriche francesi e le prospettive italiane (Rubbettino, 2016), quest’ultimo scritto a tre mani con Giuseppe Gagliano, presidente del Cestudec e studioso presso varie istituzioni internazionali, e con il ricercatore Laris Gaiser. A questi si è aggiunto nelle ultime settimane Intelligence e magistratura. Dalla diffidenza reciproca alla collaborazione necessaria (Rubbettino, 2017), con prefazione di Carlo Mosca, che sarà presentato a Roma presso la Camera dei Deputati.
Sembra quasi che questi quattro volumi, dedicati ciascuno a un aspetto specifico dell’intelligence, disegnino un unico percorso.
Mettiamola così: l’intelligence è innanzitutto un metodo di conoscenza, come ho cercato di spiegare soprattutto in Intelligence e scienze umane. In quanto tale, può diventare un prezioso strumento di ricerca, dalle potenzialità multidisciplinari ancora inesplorate e non adeguatamente sperimentate, trasformandosi in un punto di incontro soprattutto per le scienze umane. Inoltre, questo metodo mira alla soluzione immediata di problemi concreti. Infatti, nel diluvio delle informazioni che quotidianamente ci sommerge occorre necessariamente individuare quelle rilevanti. E questo è decisivo per le persone, così come per le imprese e per gli Stati.
L’intelligence, hanno scritto vari studiosi (ad esempio Aldo Giannuli), ha come scopo la previsione degli eventi. Ma la previsione in sé non è un’esclusiva di questa disciplina.
La previsione è un’esigenza dettata da un fondamentale bisogno di sicurezza, è nato con l’uomo. Solo che l’intelligence tenta di razionalizzarla al massimo perché è un metodo che ha scopi eminentemente pratici. Ed ecco perché questa disciplina è stata praticata da chi ha cercato di legittimare la propria funzione politica su basi etiche.
Non c’è una contraddizione in questo ultimo aspetto?
C’è nella misura in cui la contraddittorietà è parte integrante dei comportamenti umani e sociali. A livello laico, è lo scontato concetto dello Stato etico, mentre a livello spirituale si può ricordare che Gesù ha predicato la pace e l’amore. Tuttavia, la Chiesa, costituitasi in organizzazione temporale, ha fatto ricorso a guerre e ad informatori anche per combattere quelle che considerava eresie. Ma c’è davvero una contraddizione? Sì e no: nel momento in cui la Chiesa diventa rappresentante e tutrice della civiltà cristiana si assume compiti politici. E che c’è di più politico del problema della sicurezza?
Ma d’altro canto neppure Gesù chiude la porta al problema della politica.
Il problema è che noi leggiamo i Vangeli in italiano. Ma nella versione latina si notano dei dettagli non proprio secondari. Gesù, ad esempio dice: diligite inimicos vestros, ed inimicus, in latino, è il nemico privato, è il vicino di casa con cui si viene a lite, il rivale in amore, il ladro o il rapinatore che ci aggredisce. Non dice, tuttavia, diligite hostes vestros, laddove hostis è un altro termine latino che sta per nemico e, precisamente, indica il nemico pubblico, il completamente altro, da cui ci si deve difendere e contro cui si può, nei casi estremi, arrivare a combattere per evitare di essere annientati. Tale distinzione è ben spiegata da Carl Schmitt.
Questo, naturalmente, vale per tutte le dottrine politiche dello Stato?
Certo. Soprattutto per le dottrine democratiche e liberali, che sono in parte la trascrizione laica della riflessione cristiana. L’intelligence si situa proprio nel delicato interstizio tra valori etici, che devono sempre guidare l’azione politica, e esigenze pratiche, che possono creare la contraddizione con quei valori. La menzogna e l’inganno, da Platone in poi, passando per Machiavelli, sono temi di fondante importanza politica.
Ma questa non è una contraddizione apparente.
Ci mancherebbe: è un problema concreto che sottende un difficile equilibrio. Molto di questo equilibrio dipende proprio dall’intelligence, che, oltre che metodo, è un’arte, intesa come utilizzo appropriato per esaltare la conoscenza.
Scendendo su un piano più concreto, a che punto sono gli studi sull’intelligence? Mario Caligiuri, a quanto risulta, è stato il primo accademico a creare un corso specifico dedicato a questa disciplina.
C’è una produzione, non solo accademica, piuttosto consistente. In Italia sono stati prodotti soprattutto negli ultimi anni ottimi lavori, alcuni forse un po’ orientati politicamente. Tuttavia manca ancora una sistematizzazione accademica di questo settore. Molto è lasciato alla episodicità e qualche volta all’improvvisazione, alimentando più la confusione che la comprensione.
Ma i risultati ci sono stati in vari settori.
È indiscutibile. Si pensi alla lotta alle mafie e al terrorismo. Tante attività e inchieste hanno avuto l’apporto dell’attività dei servizi segreti. Per capirlo basta comparare le relazioni dei servizi, pubblicate periodicamente dal Parlamento, e le inchieste giudiziarie avvenute negli anni successivi. Spesso la magistratura e la polizia giudiziaria hanno confermato le tendenze ipotizzate dagli 007. Ciò significa che, in alcuni casi, in aggiunta e a sostegno del duro lavoro degli inquirenti, l’attività di intelligence, che precede l’inchiesta vera e propria, è stata certamente utile.
E non è un caso che ormai le attività normali di polizia giudiziaria utilizzino molte metodologie dell’intelligence.
Non lo è affatto perché l’intelligence è un metodo che viene utilizzato da sempre anche dalle forze di polizia. Con la differenza che i servizi riferiscono direttamente all’autorità politica mentre le forze di politizia alla magistratura. Lo strumento dell’intelligence si va considerando sempre più importante. Il modo migliore per scongiurare i pericoli è prevenirli e per prevenirli occorre prevederli. Questo, appunto, è lo scopo dell’intelligence, che non è più solo l’attività di corpi specifici dello Stato ma un metodo vero e proprio, dotato di una sua autonomia e perciò praticabile da chiunque, poiché tutti hanno necessità di orientarsi nella realtà, vivendo, nella società della disinformazione sistematica e intenzionale.
È la fine del mito di 007?
Ma 007 è un mito e i miti non muoiono per definizione. Il problema è capire quanti di questi siano reali. Ad esempio, un grande esperto di intelligence, Federico Umberto D’Amato, era tutto tranne che il personaggio creato da Fleming: non era un donnaiolo e neppure un fusto. Non somigliava affatto al superuomo di massa di cui scrisse con ironica arguzia Umberto Eco. Era tra l’altro un raffinato buongustaio che su L’Espresso raccontava le meraviglie della cucina italiana, fino a inventare una celeberrima guida. Ricordo quello che diceva il mio maestro Francesco Cossiga di James Bond: “uno così lo arresterebbe anche un vigile urbano”.
A proposito di Cossiga: lui voleva convertire Gladio in una specie di intelligence antimafia. Ma poi non se ne fece nulla.
Non mi risultano queste intenzioni del Presidente. Di sicuro, l’intelligence può essere un validissimo supporto all’operato della magistratura tramite la polizia giudiziaria. Appunto per questo, tra i due mondi, come sostengo nel mio ultimo libro, per contrastare i nemici dello Stato, occorre passare “dalla diffidenza reciproca alla collaborazione necessaria”.
Un altro aspetto importante dell’intelligence è quello digitale, che ha trasformato in maniera radicale l’approccio ai problemi di sicurezza.
Per numeri ed estensione, la rete è un continente a parte, quello più grande di tutti e in continua espansione, costituito solo da informazioni. Queste informazioni hanno due aspetti: quantitativo e qualitativo. Il primo è in crescita costante: in un decennio siamo passati dai gigabyte, che oggi entrano in una banale chiavetta usb, che è possibile acquistare in un supermercato, ai terabyte, che sono entrati nella vita domestica, visto che gli hard disk di serie dei pc hanno questa dimensione standard anche nei modelli più economici. I contenitori sono cresciuti proprio perché le informazioni, cioè i contenuti potenziali, sono aumentate a loro volta in maniera esponenziale. Ciò pone due tipi di problemi: la privacy e la sicurezza. Conciliare questi due aspetti è il problema endemico della società contemporanea. E in entrambi i casi, l’intelligence assume un ruolo centrale.
Ma l’informatizzazione dell’intelligence non elimina o, quantomeno, riduce l’apporto dell’elemento umano?
Al contrario: lo rende ancora più indispensabile. Ribadisco che le informazioni hanno anche un aspetto qualitativo, che è vitale per l’intelligence. Le tecnologie sono utilissime per raccogliere e classificare i dati. Ma l’intelligenza umana resta l’elemento essenziale per comprendere quali siano quelli realmente utili. Di più: quanto maggiormente cresce l’importanza e l’utilizzo della tecnologia, tanto più diventa indispensabile il fattore umano. Non a caso la parola “intelligence”, deriva da intelligenza, facoltà umana per eccellenza.
L’altra grande novità è l’intelligence economica.
In realtà, non è una novità. Sono nuove, semmai, le modalità con le quali oggi si esplica. Lo spionaggio industriale, per dirla in termini tradizionali, si è sempre praticato, sia in contesti pubblici, il cui referente e destinatario era lo Stato, sia in contesti privati. Oggi, tuttavia, lo Stato, in seguito alle politiche di privatizzazione, tende a comportarsi come un soggetto privato. Viceversa, i grandi gruppi economici tendono ad acquisire un peso politico tale da condizionare la vita delle Nazioni. Quindi, non sono tanto cambiati i metodi quanto i rapporti di forza.
A livello pratico cosa comporta?
Oggi si parla di guerre asimmetriche e ibride. Perciò una competizione economica forte può assumere significati bellici anche quando avviene tra soggetti militarmente in pace. E qui si torna alla centralità dell’intelligence, poiché nel XXI secolo anche gli Stati amici sono sempre concorrenti.
D’accordo. Ma non si corre il rischio che così i servizi segreti tendano ad acquisire una autonomia intollerabile? Detto altrimenti, a deviare, come si diceva negli anni’70?
È un altro ordine di problemi. In democrazia i servizi esistono sulla base di leggi dello Stato, quindi la loro attività e la loro esistenza è necessaria e legale. A volte, potrebbero esserlo alcune modalità con cui operano. In questo caso, è sempre una questione di trovare il giusto equilibrio tra valori diversi, magari in apparente contraddizione tra loro. Il tema è quello di definire e contemperare i confini tra legalità e legittimità. Ma non è detto che queste contraddizioni si verifichino sempre. E poi, a proposito di deviazioni e devianze dei servizi occorre valutare caso per caso.
Cioè?
Dietro l’uso di questi aggettivi c’è sempre stata una polemica politica, non solo nel nostro Paese. In Italia è iniziata negli anni Sessanta, dai tempi del “Piano Solo”, il presunto tentativo di golpe del generale Giovanni De Lorenzo e proseguita fino al recente processo ad alcuni esponenti di spicco dell’Arma dei carabinieri per la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Visto che sono state molte le inchieste, giornalistiche e giudiziarie, occorre porsi alcune domande. La prima: quand’è che i servizi déviano per davvero? La seconda: non è che a furia di demonizzare, si finisce con il tarpare le ali a strumenti importanti per la sicurezza dello Stato?
Cosa si risponde Mario Caligiuri?
Che, fermo restando l’esigenza di controllare democraticamente e in modo severo l’attività dei servizi, alcune polemiche sarebbero evitabili, mentre le sfide dell’intelligence devono essere necessariamente avanzate. Siamo al 5.0: più avanti dell’informatica. Occorre aggiornarsi: ne va del nostro presente, visto che i problemi di oggi sono molto più complessi di quelli del mondo della Guerra Fredda. Per comprendere il nuovo ordine mondiale e per contrastare le nuove forme di criminalità e di terrorismo i concetti astratti non aiutano. Serve la conoscenza, serve la previsione. Serve l’intelligence.
(a cura di Saverio Paletta)
Per saperne di più:
Recensione a Intelligence e Magistratura
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