Violenza e femminicidio, solo paranoie?
Statistiche e nuovi allarmi: è davvero emergenza?
Ma dietro le denunce restano i luoghi comuni. I dati sono gravi ma non apocalittici
E qualcuno invoca nuove riforme
I numeri sono impressionanti. Tanto più perché riguardano episodi verificatisi in un breve lasso di tempo. Il caso della 28enne di Rimini, ridotta in gravi condizioni dal suo ex di Capo Verde, è il quinto emerso a partire dall’Epifania, quando i carabinieri di Cuneo sono dovuti intervenire tre volte in seguito a denunce per stalking e violenza domestica. Altri quattro casi si erano verificati qualche giorno prima, sempre nella stessa zona. E, sempre nello stesso periodo, il sindaco di Aosta ha denunciato le statistiche “record” del 2016, in cui sono stati registrati oltre 160 casi.
Fin qui, il dato dell’Italia “civile”, che ha conosciuto per prima l’emancipazione o che da sempre esibisce un approccio godereccio alle cose della vita. Ma sotto la “linea gotica” la situazione non è migliore, perché spesso la differenza è tra i casi denunciati e quelli sommersi.
La violenza “domestica” o “relazionale” 2.0 ha assunto un curioso colore politico, perché ha ridato argomenti al mai sopito femminismo tricolore e a una classe politica pronta a recepirne le istanze ben oltre l’allarme. E da qui alla distorsione il passo è breve e lo hanno fatto in tanti.
Infatti, se sommiamo alle statistiche delle aggressioni (all’interno della famiglia o nel rapporto di coppia) i dati dei “femminicidi”, ricaviamo il quadro allucinante di una guerra, non dichiarata degli uomini contro le donne. Che soccomberebbero sistematicamente alla mattanza provocata dalla frustrazione maschile. I seguaci di Lombroso non sarebbero riusciti a escogitare teorie così assurde.
Quanto c’è di vero in questo nuovo mito del maschio oppressore e carnefice? Poco.
È troppo comodo elaborare le statistiche solo sulla base del sesso: è ovvio che, tranne rari casi, la donna è (o è percepita) più debole, quindi necessariamente vittima.
Ma se si considerassero altri dati forse il quadro cambierebbe. Ad esempio, si potrebbero esaminare il livello sociale e culturale degli aggressori e delle aggredite, la loro area geografica e, all’interno della stessa area, le zone specifiche. Forse ci accorgeremmo che certe cose accadono più tra i poveri che tra i ricchi ed emergono più nelle zone opulente, ma dal recente passato rurale, che nelle aree metropolitane, dove è più radicato uno stile di vita “borghese” e “individualista”.
Troppo classista, il ragionamento? Forse. Ma potrebbe reggere di più del lombrosismo a base sessuale che ci hanno propinato i media, che in questo caso fanno la differenza, non sempre in buona fede e in regola con la deontologia. Basta fare il paragone con la stampa di 30 anni fa. I giornali e i tg aprivano soprattutto con la politica e i delitti relazionali (allora non si parlava di stalking) erano raccontati nelle pagine interne. Pruderie e (auto)censura? Anche. Ma era soprattutto una scelta: i giornalisti di allora erano convinti che il lettore fosse soprattutto un cittadino e perciò si interessasse prima alla cosa pubblica e poi ai fatti altrui. Il tabloid militante che trasgrediva la regola era Cronaca Vera.
Dopo la crisi dell’editoria le cose si sono invertite: giornali, tg, siti web bombardano di brutto con la cronaca nera spicciola per inseguire gli istinti più bassi del pubblico, pur di sopravvivere. Ed ecco che, grazie alla pressione mediatica, nascono allarmi che spesso non hanno riscontro nella realtà. Non perché non ci siano reali motivi di allarme. Ma perché non è vero che certe tendenze criminali siano in crescita. Le violenze domestiche, i delitti a sfondo sessuale, le aggressioni e le persecuzioni ci sono sempre stati e sono stati sempre riportati dai media – e basta spulciare le emeroteche e le raccolte di documenti degli archivi di Stato per accorgersene – che, tuttavia, avevano un freno nel senso della decenza.
Ricordiamo, al riguardo, quel che disse Montanelli a proposito del delitto Pasolini: «Noi non riportammo i dettagli, sebbene tutti a quel punto sapessero che ci fosse andato a fare Pasolini all’Idroscalo, perché noi crediamo che i nostri lettori apprezzino la decenza». Paleogiornalismo? Forse. Ma è preferibile alla distorsione per cui il privato, soprattutto nei suoi aspetti più morbosi, è preferibile al pubblico.
E, visto che ci siamo, chiediamo scusa per un’altra divagazione: questo trend mediatico potrebbe non dispiacere alla classe politica. Facciamo l’esempio della povera Sarah Scazzi, la cui vicenda ha trasformato la cronaca giudiziaria in una soap che ha tenuto banco anche quando nel nostro Paese avvenivano cose più gravi e, in teoria, di maggiore interesse pubblico: come il caso della P3, legato a una storia di cospicui finanziamenti pubblici. E vale la stessa considerazione per la vicenda della povera Yara Gambirasio, verso la quale i media hanno abbondantemente oltrepassato i limiti del diritto di cronaca con un inedito piglio morboso mentre stentavano a raccontare gli scandali legati al tracollo del Monte dei Paschi di Siena.
Già: raccontare il privato è facile, raccontare il pubblico e le sue complessità decisamente meno. E quando il privato “copre” il pubblico gatta ci cova: si vuol distrarre l’opinione pubblica da casi più gravi.
Ecco, non vorremmo che quest’eccessiva attenzione ai delitti “relazionali” si trasformasse nell’ennesima arma di distrazione di massa, perché questa volta i rischi sarebbero tanti. Il pericolo è che si ripetano in peggio le miniriforme del codice penale iniziate a partire dagli anni ’90. Prima furono i reati sessuali, poi, nel decennio scorso, i nuovi reati, ad esempio lo stalking, introdotti per reprimere con più efficacia i comportamenti persecutori. Questi rimedi sono stati efficaci? Per saperlo occorrerebbe avere una statistica delle condanne, che nessuno ha fornito. Di sicuro, invece, sono aumentate le denunce, che hanno letteralmente intasato gli uffici delle Forze dell’ordine e le Procure.
Siamo sicuri che molte denunce siano motivate. Tuttavia non è questo un motivo per introdurre altri reati nel nostro ordinamento (come hanno chiesto a gran voce associazioni ed esponenti del neofemminismo) già saturo, quando il problema non è nel codice penale ma nelle procedure. Non importa che i reati siano quelli “vecchi” del codice Rocco o siano modernissimi e parlino inglese anziché l’italiano degli anni ’30. Il problema sta nell’applicazione delle misure di sicurezza, che è spesso ostacolata dal codice di procedura penale, criticato sin dalla sua approvazione per gli eccessi di garantismo, che spesso legano le mani ai magistrati e agli operatori di pubblica sicurezza.
Inasprire pene che difficilmente saranno applicate non serve, se non a far finire sotto inchiesta il prossimo solo sulla base di denunce. Servirebbe, semmai, limare certi eccessi di garanzie nei casi conclamati di violenza e persecuzione.
Le strette legislative piacciono assai soprattutto a chi vagheggia politiche autoritarie.
Ieri era l’ordine pubblico, oggi è un concetto strano di “ordine privato”, che non farà tuttavia calare i casi di violenza perché il problema reale è altrove. Ripetiamo: nelle procedure.
Prendiamo, per restare alle nostre democrazie, il caso della Germania: gli atti di violenza a danno delle donne sono superiori rispetto all’Italia. Ma sono superiori anche le condanne e le repressioni. E, a quanto risulta, l’ordinatissima Germania non ha approvato leggi “speciali”. Che l’Italia non merita perché, siamo sicuri, la stragrande maggioranza dei cittadini e dei migranti che vi vivono sono più sani e meno frustrati di quanto certa stampa ami descriverli.
Saverio Paletta
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