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Da apprendista stregone a “cattivo maestro”. Ricordo di Franco Piperno

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Un ritratto dell’ultimo protagonista degli anni di piombo. Intellettuale raffinatissimo e scienziato, lo studioso calabrese fondò Potere Operaio e fu indagato (e condannato). Lascia molti ricordi, qualche rimpianto e varie zone d’ombra tutte da chiarire

Ci sono due modi di ricordare Franco Piperno.

Al primo abbiamo già assistito in abbondanza: una celebrazione continua, non priva di punte retoriche, suggestioni ideologiche e richiami nostalgici (che comunque ci stavano), durata tutta la settimana iniziata il 13 gennaio.

Una data particolare, in cui, oltre a Piperno, se ne sono andati il decano del giornalismo internazionale Furio Colombo e l’economista Vittorio Daniele, esponente di primo piano di un nuovo meridionalismo rigoroso poco incline alla politicizzazione.

L’accostamento non è peregrino ma suggestivo: due protagonisti, ciascuno a modo suo, di quel ’900 in cui siamo cresciuti e ci siamo formati in tanti, e, viceversa, uno studioso che guardava al futuro coi piedi ben saldi nel presente.

Un’intensa immagine giovanile di Franco Piperno

Perciò chi scrive cerca di ricordare l’ex fondatore di Potere Operaio ed ex prof dell’Università della Calabria nel secondo modo possibile: con uno sguardo, si spera, sereno e disincantato che diventa doveroso nei confronti di un protagonista di primo piano di un ambiente e di un’epoca.

Cioè della sinistra extraparlamentare più dura e (purtroppo) borderline e degli anni di piombo.

I protagonisti come Franco Piperno non muoiono mai: più semplicemente, si consegnano alla storia che – in parte più o meno grande e in maniera più o meno consapevole – hanno contribuito a disegnare.

Senza uno come lui, forse, gli anni ’70 sarebbero stati diversi e l’Unical sarebbe stata un altro ateneo.

Non meglio o peggio: diversi.

Piperno e il lungo addio al ’900

Storicizzare significa anche capire. E capire vuol dire raffreddare le passioni quell’altro po’ che basta per svoltare pagina e superare davvero certe contrapposizioni, la loro scia di lutti, di rabbia e di rancori.

Significa, infine, prendere atto che certo ’900 è finito, anche se alcuni suoi aspetti (la moda, in particolare le famose zampe d’elefante, e il rock derivativo alla Maneskin spacciato per novità) fanno capolino qui e lì.

Torniamo al punto, anzi all’illustre scomparso: Franco Piperno è il terzo pezzo di quel ’900 particolare passato alla storia, circa un anno e due mesi dopo Lanfranco Pace (4 novembre 2023) e circa un anno e mese dopo Toni Negri (16 dicembre 2023).

Toni Negri

I tre hanno in comune, oltre alla militanza in PotOp, la vicinanza – mai smentita – alle Brigate Rosse, la latitanza all’estero e le condanne definitive, sebbene con pene variamente ridimensionate (Negri) o prescritte (Pace e Piperno).

Passano le stagioni, arriva il riflusso, che per molti ambienti, specie i più provinciali sembra un reflusso, caratterizzato dalla persistenza di alcuni aspetti di certe ideologie, forse ben oltre la volontà dei tre. I quali, tornati alle vite civili e alle loro fortunate carriere, hanno giustificato e relativizzato la loro militanza e il loro ruolo in quegli anni turbolenti.

Non così hanno fatto molti che si sono ispirati a loro.

Tant’è: essere cattivi maestri comporta anche certi colpi di coda.

Ma quand’è che l’aggettivo supera il sostantivo?  Quand’è che il maestro diventa cattivo?

Il banco di prova, per tutti (specie per Piperno) è il sequestro Moro, più il terribile e ambiguo colpo di coda dell’arresto dei brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda nell’abitazione romana di Giuliana Conforto, all’epoca dei fatti assai vicina al prof calabrese e al giornalista abruzzese.

Anzi, così vicina da ospitare i due compagni in difficoltà su loro richiesta. Questa, come altre vicende legate all’affaire Moro, sono finora naufragate. Senz’altro di fronte all’evidenza giudiziaria (ad esempio, il proscioglimento di Conforto). Ma anche davanti a un muro di reticenze, omissioni, contraddizioni e legami politici particolari.

Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa

Valga su tutti l’affettuosa protezione elargita dal Psi – in particolare il vecchio Giacomo Mancini e l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini – agli ambienti dell’Unical indagati dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa perché sospettati di contiguità alle Br.

Il fatto che non ci siano state prosecuzioni giudiziarie alla retata condotta nel ’79 da dalla Chiesa, non autorizza a pensare che questa fosse un abuso o una specie di prepotenza fascista: era l’atto legittimo di un’inchiesta comunque fondata a livello investigativo.

Ma certe reazioni dell’epoca autorizzano a pensare altro. Ad esempio, che non abbia torto lo storico Miguel Gotor a puntare il dito nel suo durissimo (e bello) Generazione settanta (Einaudi, Torino 2022) sulle Università di Padova e Cosenza (cioè l’Unical). In particolare, a parlare di «persistere di legami, sostegno logistico e organizzativo e muri di omertà che avevano reso l’azione del “Partito armato”, ormai imperniatosi prevalentemente intorno alle Brigate rosse, ancora così efficace» [pag. 177, sottolineatura nostra].

Gli apprendisti stregoni della rivoluzione

Apprendisti stregoni della rivoluzione, il padovano Negri e il catanzarese Piperno hanno comunque alcune, non proprio leggere, responsabilità morali del clima di violenza politica che imperversò nella seconda metà degli anni ’70.

Certo, hanno obiettato alcuni estimatori, loro volevano fare la rivoluzione. Ma, si può rispondere senza difficoltà: cosa resta di una rivoluzione irrealizzata (magari perché irrealizzabile)? Macerie esistenziali, qualche opportunismo, e – appunto – la violenza. E la volontà rivoluzionaria diventa solo l’auto percezione di chi questa violenza l’ha predicata, come Negri e Piperno, e di chi, purtroppo, l’ha compiuta.

Ma per fortuna i due sono stati anche maestri. Cioè due intellettuali di spessore notevole e dal pensiero non proprio banale.

Un’immagine recente di Franco Piperno

Per Negri parla soprattutto l’eccezionale Impero (Rizzoli, Milano 2002) scritto a quattro mani con Michael Hardt.

Per Piperno fa fede il lucidissimo ’68 l’anno che ritorna (Rizzoli, Milano 2008), pieno di riflessioni profonde e di spunti (auto) critici, a volte brillanti, sull’anno che cambiò la storia dell’Occidente e che, in Italia, determinò il decennio successivo, nel bene e nel male. Per chi ha coltivato passioni libertarie e pensieri di confine, a volte estremi (per capirci, Carl Schmitt) questo Negri e questo Piperno possono essere interlocutori stimolanti. Forse non maestri, ma di sicuro non più cattivi.

Ciroma, Mancini e l’onda lunga di Piperno

Rientrato a Cosenza e riaccolto da quel mondo politico e accademico che non l’aveva mai abbandonato, Franco Piperno ha provato a incidere sulla realtà culturale cosentina e calabrese.

Lo ha fatto – anche questo va detto – grazie a due elementi: la solidarietà di una certa gauche socialista sinonimo di potere per decenni (Mancini e la sua corrente) e il vuoto culturale quasi pneumatico della provincia calabrese.

Gli step di questa nuova influenza del professore di Arcavacata sono due: la creazione di Radio Ciroma, una delle poche radio indipendenti d’Italia, e poi il ruolo di assessore nel decennio dell’amministrazione Mancini (1993-2002) e di quella guidata da Eva Catizone (2003-2006).

La Prima repubblica e la sua geografia partitica sono ricordi, ma, a differenza che altrove, l’era Mancini si caratterizza per un particolare sincretismo all’interno del quale i superstiti del Psi coesistono con la nicchia degli (ex?) autonomi e con una pattuglia di ex missini. Non destra o sinistra, ma entrambe, col vecchio leader come punto di equilibrio.

Da sinistra, Giacomo Mancini e Franco Piperno

Il pipernismo, declinato non senza qualche fatica nel nuovo contesto, influenza in maniera pesante la cultura, specie giovanile, di Cosenza. Lo fa anche per mancanza di alternative.

Ma pure di quest’esperienza è rimasto poco o nulla, dopo la morte di Mancini, il progressivo declino politico di altri protagonisti (Catizone) e, visto che ci siamo, anche un’altra morte importante: quella di Tommaso Sorrentino (2009), avvocato e giurista di vaglia cosentino, anche lui legato agli ambienti dell’autonomia.

Anche all’Unical la presa ideologica di determinate tesi è in calo, vuoi perché i tempi e le generazioni cambiano, vuoi perché le trasformazioni di parte del mondo accademico hanno finalmente innescato l’obsolescenza di idee sin troppo ultra attive in tante nicchie.

Terminate le lodi funebri, esaurito il cordoglio, è il momento delle riflessioni e di quella storicizzazione di cui abbiamo parlato in apertura. Tutto passa e tutto si può raccontare, incluso Piperno. Una volta tanto senza retorica

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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