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Gli italiani sì, l’Italia no: quando il negus ci voleva bene (a modo suo)

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Rimesso sul trono dagli inglesi nel 1941, Hailé Selassié trova un Paese rimesso a nuovo, migliore di quello che aveva perduto. Per questo elogia la passata amministrazione coloniale e desidera che i nostri concittadini restino in Etiopia, a lavorare e a produrre. Poi, nel dopoguerra, si rimangia tutto sulla scia della decolonizzazione…

Iniziamo con una data: 17 giugno 1941. Hailé Selassié I, negus neghesti (imperatore) d’Etiopia, ha un colloquio riservato con un nemico: l’ex ministro plenipotenziario italiano Renato Piacentini, membro di lunga data del corpo diplomatico italiano, che vanta una conoscenza di lungo corso dell’Etiopia.

Piuttosto provato, il negus ha toni concilianti verso gli ex amministratori italiani. Uno in particolare: il generale Guglielmo Nasi.

Ecco nel dettaglio la dichiarazione di Selassié, riportata da Alberto Alpozzi in vari lavori, tra cui il libro Bugie coloniali (Eclettica, Massa 2021, pagg. 133 ss.):

«Sono molto dolente che le circostanze di questa guerra non consentano di fare la conoscenza personale del generale Nasi, verso il quale professo la più alta ammirazione e la più viva riconoscenza per le direttive di politica indigena, inspirata ad un largo senso di giustizia e di umanità, da lui adottate e imposte durante tutto il periodo del suo vice-governatorato generale. Le migliaia di abissini da me interrogati dopo il mio ritorno in Etiopia mi hanno fatto, senza eccezioni, unanimi commoventi grati elogi del trattamento usato dal generale Nasi verso le popolazioni native dell’impero».

È il caso di contestualizzare meglio.

Il generale Guglielmo Nasi

Guglielmo Nasi: il migliore ufficiale italiano in Africa Orientale

Quello stesso giugno ’41 Guglielmo Nasi si batte come un leone per difendere il ridotto di Gondar, uno degli ultimi avamposti italiani nel Corno d’Africa, quasi del tutto conquistato dalle truppe britanniche in travolgente avanzata.

Nasi, classe 1879 arriva in Etiopia dopo una carriera lunghissima da operativo, iniziata (come per quasi tutti gli alti ufficiali della sua generazione), con la Guerra italo-turca (1912) e proseguita con la Grande guerra. In entrambi i casi, si copre di menzioni e medaglie.

Diventato tenente colonnello, è inviato a Parigi per tre anni, in qualità di addetto militare dell’Ambasciata italiana, quindi, come molti militari in carriera, prende la via delle colonie.

Inizia dal Nordafrica, dove diventa capo di stato maggiore delle truppe coloniali e vicegovernatore della Cirenaica Italiana.

Nasi acquista, grazie a questa esperienza, la capacità di coordinare le truppe metropolitane, costituite ovviamente da italiani, con quelle indigene. Questo background si rivela prezioso per l’esperienza successiva: la guerra d’Etiopia.

Soldati italiani in Etiopia

L’alto ufficiale guida la Prima divisione fanteria coloniale Libia, composta da truppe nazionali e nordafricane, con cui sbaraglia nei pressi dell’Ogaden gli etiopi guidati dal generale Wehib Pascià, un turco di origine albanese.

Pascià, a sua volta, non è proprio un fesso: già alto ufficiale dell’esercito Ottomano, si distingue per la brillante condotta militare durante la Grande guerra. Poi, finite le ostilità e il vecchio impero, cade in disgrazia presso il nuovo sistema repubblicano fondato da Mustafa Kemal. Finisce in galera, perde la cittadinanza turca e girovaga per l’Europa. Poi va in Etiopia, nella nutrita legione straniera di consulenti militari del negus. Dopo la vittoria italiana, Pascià torna a Istanbul dove muore nel 1940.

Al contrario, Nasi resta in Etiopia, dove diventa prima governatore dell’Harar e poi dello Scioa, quindi vice governatore dell’Africa Orientale Italiana.

Diventato generale allo scoppio della Seconda guerra mondiale, il Nostro si distingue per una serie di azioni militari al fianco di Amedeo di Aosta, tanto brillanti quanto sostanzialmente inutili, se non per rallentare l’avanzata britannica.

Si arrende alle truppe anglo-abissine il 28 novembre 1941 dopo una resistenza strenua, terminata nella difesa della sede della Banca d’Italia a Gondar, dov’è ubicato il comando militare italiano.

Secondo l’antifascista, antitaliano e antieuropeo (e a volte antibianco) Angelo Del Boca, il generale Nasi è stato il migliore ufficiale italiano del Corno d’Africa.

Angelo Del Boca

Selassiè e gli italiani: un amore interessato

Hailé Selassié è tornato ad Addis Abeba il 5 maggio ’41, scortato dalle truppe inglesi. Ma il suo trionfo è apparente: non ha alcun potere e i britannici lo trattano come un sorvegliato speciale.

Non ha poteri né il becco di un quattrino, a dispetto delle rassicurazioni britanniche. Per finanziarsi, lancia una colletta via radio, ma probabilmente serve a poco, perché dopo la crisi progressiva delle attività economiche create, gestite o stimolate dagli italiani è difficile avere un imponibile consistente.

C’è di peggio: a differenza di quella italiana, l’amministrazione britannica si ispira al colonialismo vecchia maniera, col relativo carico di razzismo (che da noi resta confinato sì e no a norme spesso non applicate) e di spocchia. Perdipiù, è un’amministrazione militare provvisoria che ha ben altre gatte da pelare in Africa, dove Rommel imperversa ancora e la partita con l’Asse non è ancora chiusa.

Il solito Angelo Del Boca riporta, nel suo Gli italiani in Africa Orientale 3. La caduta dell’Impero (Mondadori, Milano 2014) di altri incontri tra Piacentini, il negus e il suo entourage.

Truppe etiopiche

Piuttosto illuminante, sulla situazione politica dell’Impero Etiopico, risulta il colloquio tra l’ex ambasciatore e ato Kiros, il segretario particolare di Selassié.

«Contrariamente a quanto era stato convenuto a Londra», racconta il segretario, «gli inglesi non avevano rimesso il Negus sul trono con il pieno esercizio delle sue prerogative e funzioni sovrane, ma lo avevano tenuto, dal giorno del suo arrivo ad Addis Abeba, praticamente isolato e relegato nella residenza imperiale, privo di autorità, senza possibilità di esercitare nessun effettivo atto di dominio e di governo. Inoltre gli inglesi avevano promesso al Negus un forte aiuto finanziario, che era invece totalmente mancato».

Altri dettagli peggiori emergono da un altro colloquio, tra Piacentini e Behesnilian, anche lui segretario di Selassié. Racconta il diplomatico, riferendosi al funzionario: «Mi mostrò una ricetta medica, redatta a Parigi, per un medicinale a base di stricnina, e mi spiegò come il Negus soffrisse d’esaurimento nervoso e di debolezza generale, per cui avrebbe desiderato rifare quella cura che qualche anno prima gli era stata giovevole. Senonché, data la presenza della stricnina nel medicinale, il Negus aveva esitato molto a rivolgersi agli inglesi o ad altri perché glielo facessero preparare, e aveva infine deciso di rinunziarvi, piuttosto che andare incontro ad un rischio grave. Era poi tornato sulla sua decisione e aveva incaricato il suo segretario di venire da me per pregarmi di fargli preparare quella medicina».Questo passaggio è sin troppo rivelatore del clima che si respira ad Addis Abeba. Tant’è che Piacentini decide di approfondire: «Sulla base di questo episodio, ho cercato riservatamente di rendermi conto se realmente gli inglesi avessero potuto pensare ed una eliminazione del Negus, ma non ho potuto trovare motivi atti a spiegare una così estrema soluzione […]. Per comprendere la condotta del Negus in questa circostanza si deve quindi pensare ad uno dei lati fondamentali del carattere abissino, la diffidenza, tanto più marcata nell’animo del Negus in quanto egli ha passato gran parte della sua vita Pubblica in mezzo agli agguati e alle subdole ostilità del tenebroso ambiente del Ghebi imperiale di Addis Abeba».

La missione di Piacentini finisce qui. Gli uomini dell’Intelligence Service lo tallonano da tempo e lo ammanettano l’uno luglio 1941. L’ambasciatore finisce prima in carcere ad Acachi e poi al confino ad Hàrar. Lì rimane fino a maggio ’42, quando i britannici lo imbarcano su una nave bianca e lo rispediscono in Italia. È il primo di una lunga serie di connazionali espulsi dall’Etiopia contro la volontà degli etiopi.

I britannici contro gli italiani

Al suo ritorno, il negus trova il suo Paese rimesso letteralmente a nuovo, a livello industriale, produttivo e sanitario.

Di fronte all’imponente opera di ricostruzione (e, a volte, di costruzione tout court) civile realizzata in pochi anni dagli italiani, le vecchie polemiche belliche – ad esempio, quella tuttora non sopita sul nostro uso dei gas asfissianti – passano in secondo piano. Anche perché l’imperatore ha un disperato bisogno di italiani per riprendere le attività industriali, manutenere le strade e le opere pubbliche e gestire l’agricoltura meccanizzata, prima del nostro arrivo inesistente.

Inizia così un braccio di ferro tra il negus, che vuole più italiani possibile, e gli occupanti britannici, che invece vogliono sbatterci fuori a più non posso.

Lorenzo Taezaz

Selassié spara alto: gli servono almeno 8mila italiani, altrimenti l’economia etiope traballa.

Churchill taglia la cifra: 5mila sono più che sufficienti.

Ma anche questi sono troppi, sostiene il generale Philip Euen Mitchell, che riduce la quota di italiani a 2mila.

Il tira e molla tra la corte negussita, rappresentata dal ministro degli Esteri Lorenzo Taezaz, e gli inglesi è estenuante. Alla fine, i nuovi padroni della piazza concedono un numero risicatissimo: solo 500 italiani.

E subito si scatena un altro talento tricolore: l’arte di arrangiarsi eludendo divieti e aggirando i decreti di espulsione.

Il negus perde, ma la Gran Bretagna non vince del tutto e gli italiani se la cavano: a guerra finita, l’Etiopia riprenderà la sua indipendenza e molti nostri concittadini resteranno a lavorarvi, tantopiù che la vicina Somalia torna nella sfera italiana, grazie al mandato fiduciario concessoci dall’Onu nel 1950.

Guglielmo Nasi e le ambiguità etiopiche

Resta un piccolo strascico. Riguarda il generale Gugliemo Nasi.

Arresosi ai britannici dopo l’eroica resistenza a oltranza a Gondar, l’ultimo viceré d’Etiopia finisce la guerra in un campo di concentramento in Kenya assieme ad Amedeo d’Aosta e, alla morte di questi, assume il comando di 60mila prigionieri italiani. Lealista verso le istituzioni, Nasi aderisce al governo Badoglio e, nel 1945 rientra in Italia per rispondere alle accuse rivoltegli dall’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo.

Se la cava alla grande in pochi mesi. D’altronde, queste inchieste – condotte spesso contro funzionari e militari che avevano aderito al fascismo senza zelare troppo politicamente – sono una specie di autoflagellazione obbligata che spesso sfocia nella caricatura.

Più ambigua la situazione in cui Nasi incappa nel 1950, allorché l’Onu conferma il mandato fiduciario sulla Somalia all’Italia.

Truppe italiane in azione durante la Guerra d’Etiopia

Gli Etiopi protestano due volte: contro l’assegnazione della Somalia all’Italia e contro la nomina di Nasi a Commissario straordinario al trapasso tra l’amministrazione britannica e quella italiana.

Le proteste, vivacissime e lanciate direttamente dal negus, fanno leva su un dettaglio: il generale italiano figura in una lista di presunti criminali di guerra compilata dallo stesso governo etiope. Per capirci, lo stesso Nasi di cui dieci anni prima Selassié, rientrato ad Addis Abeba con le pezze al sedere, tesseva le lodi.

E, giusto per aggiungere altro pepe, queste lodi sono confermate da altri testimoni importanti, tra cui il socialdemocratico Luigi Preti, all’epoca del fatto (1965) ministro alla Riforma della pubblica amministrazione.

Scrive Preti in occasione di una visita istituzionale in Etiopia: «[Il negus] mi parlò molto bene anche del Generale Nasi ed ebbe particolari espressioni di lode per le imponenti Opere di viabilità realizzate dagli italiani in quella terra».

L’ambiguità del negus e degli etiopi su Nasi resta tutta da chiarire. Ma di sicuro il paragone tra l’Etiopia restituita dagli Italiani e quella attuale, fiaccata dai cambi di regime e dalla bellicosità tra vicini è impietoso.

Si stava meglio anche lì quando si stava peggio?

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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