Querele e social, tre “suddisti” costretti alle scuse
Raffaele Vescera, Nando Dicè e Antonio Ciano sono finiti a giudizio con l’accusa di aver diffamato l’avvocato e scrittore Josè Mottola. Risultato: hanno dovuto rimangiarsi insulti e insinuazioni. Morale della favola: le multinazionali del web non sono più una zona franca. Neppure per i neoborb
L’episodio in sé è piccolo: tre persone lanciano insulti attraverso Facebook, ricevono (giustamente) una querela e, dopo un decreto di condanna, chiedono scusa per evitare il peggio in una sentenza.
Una storia ordinaria delle intemperanze e delle scostumatezze che avvengono in rete.
Ma se facciamo i nomi dei protagonisti, questo fatto diventa particolarmente pruriginoso.
Sono il napoletano Orlando Dicè, detto Nando, leader del movimentino suddista Insorgenza Civile, Antonio Ciano, decano dei revisionisti antirisorgimentali, e Raffaele Vescera, scrittore e giornalista pugliese e animatore delle pagine social legate in maniera più o meno diretta a Pino Aprile (il quale, va detto per dovere di cronaca, in questa vicenda non c’entra perché il fatto è accaduto sulla bacheca di Vescera).
Il bersaglio degli insulti è José Mottola, avvocato del Foro di Bari e cultore di storia appassionato e competente. E proprio questa passione lo ha reso bersaglio degli strali dei tre neoborb.
Vediamo come.
La vicenda risale al 2014, un eone fa considerata la velocità della rete. Quell’anno il dibattito sugli aspetti più controversi dell’Unità nazionale, innescato dal successo di Terroni di Pino Aprile era in fortissima crescita, sia sui media tradizionali sia nel web. Mottola vi aveva partecipato con due libri interessanti: Fanti e briganti nel Sud dopo l’Unità (2012) e Il “primato” del Regno delle Due Sicilie (2014) pubblicati entrambi dall’editore Capone.
L’incidente è avvenuto in seguito a un articolo, È il «sudismo» il problema del Sud, pubblicato da Mottola sul Corriere del Mezzogiorno del 14 marzo 2014, che conteneva una replica a un altro articolo, pubblicato dallo storico Paolo Macry, il quale a sua volta aveva replicato a Pino Aprile.
Fin qui, un’ordinaria querelle a mezzo stampa: Aprile aveva rievocato le presunte atrocità del Regio Esercito impegnato nella repressione del brigantaggio; Macry, nel rispondergli, aveva fatto alcune concessioni alla narrazione neoborb (in particolare, aveva concordato sulla pesantezza a volte eccessiva delle repressioni militari e sulle iniquità sociali scaturite dal processo di unificazione); Mottola, a sua volta, aveva fatto alcune precisazioni, tra l’altro documentatissime: le repressioni militari furono la risposta senz’altro dura e a volte oltre i limiti della legalità alle atrocità commesse dalle bande dei briganti a danno dei soldati e delle stesse popolazioni.
La discussione sarebbe potuta finire qui.
Ma nel 2014 il terronismo era in ascesa e trovava orecchie pronte un po’ dappertutto. Perciò i suoi capofila non avevano messo da parte solo le buone creanze (per le quali, a rivedere alcune polemiche, non risultano troppo portati) ma anche la prudenza.
Infatti, Vescera prende l’articolo di Mottola, lo pubblica sulla propria bacheca Facebook e accompagna il post con un commento pesantissimo, di cui riportiamo gli stralci più significativi:
«Vi è sempre una quota di intellettuali opportunisti passati nelle fila nemiche per denigrare la propria gente, ricevendone in cambio baronie universitarie e prime pagine sui giornali milanesi. E’ il caso di José Mottola, il quale, pur conoscendo la verità (…) giustifica gli scellerati massacri (…) Il negare o minimizzare queste stragi compiute da un esercito regolare non è pari, forse, al negazionismo dei neonazisti ?».
In un colpo solo, Vescera ha attribuito al suo corregionale opportunismo, brame (e risultati) accademici, velleità giornalistiche, fremiti neonazisti e, accusa tipica di certi ambienti, il tradimento del proprio sangue.
Il giornalista foggiano avrebbe fatto meglio ad approfondire un po’ la bibliografia di Mottola, prima di azzardare certi paragoni: si sarebbe accorto che, prima di dedicarsi al brigantaggio e al debunking sui presunti primati duosiciliani, l’avvocato barese aveva pubblicato per Bastogi una biografia di Zygmunt Keltz, un sopravvissuto alla Shoah. Un’iniziativa non proprio da revisionista neonazi.
Ma ormai la frittata era fatta: Dicé aveva pensato bene di dare manforte al giornalista con un commento ultra trash, degno del Monnezza degli anni ruggenti:
«Innanzi a cotanta tracotanza ed ignoranza cazzimmosa, non posso che citare il sommo Confucio: Mapigliatolonculo!».
Ciano, arrivato terzo in tanto raffinato dibattito, ha lanciato una fatwa contro il Corriere del Mezzogiorno e il suo direttore Antonio Polito:
«Questa è solo feccia, dovete boicottare questo giornale. Polito? se lascia pubblicare la Munnezza, ha delle responsabilità».
Polito, da giornalista di razza, non ha battuto ciglio. Anzi, il 18 marzo successivo ha cavalcato il dibattito con un servizio intitolato Neoborbonici ci scrivono. Per un dibattito senza censure.
Il report è costituito da stralci di mail a dir poco aggressive, con cui vari neoborb avevano inondato la casella del giornale, più un pezzo di Polito, che invitava alla calma e al confronto civile.
Parole al vento: Vescera ha fotografato la pagina del Corriere e quindi ha puntato il dito sulle «farneticazioni giustificazioniste dei massacri piemontesi perpetrati contro i meridionali di José Mottola».
Quanto bastava per colmare la misura: Mottola, infatti, si è rivolto a un suo collega, l’avvocato Federico Straziota, e ha querelato i Tre Moschettieri.
Le indagini sono durate un po’ più a lungo del previsto: la Procura di Napoli, competente su Dicè, e quella di Formia, competente su Ciano, hanno traccheggiato su questioni di competenza territoriale e quindi archiviato.
Al contrario, quella di Foggia si è attivata nei confronti di Vescera e, per completezza, ha valutato le posizioni degli altri due querelati.
Con un risultato inequivocabile: i Trettrè hanno ricevuto i loro bravi decreti penali di condanna.
Il resto è cronaca: i condannati hanno fatto opposizione e si sono costituiti in giudizio.
Ma di fronte alle balle e agli insulti espliciti non c’è dibattimento che tenga. Per fortuna dei tre, Mottola non è arrivato in fondo e ha accettato le loro scuse, inoltrate a mezzo dei propri legali e ripetute sulle stesse bacheche Facebook in cui anni prima erano volate le pezze.
Giusto una curiosità: per Ciano essere costretto alle scuse non è una novità, visto che già nel 2000 aveva dovuto cospargersi il capo di cenere per evitare una condanna per diffamazione (leggi qui).
Morale della favola: a differenza di chi promette querele con annessa richiesta di lussuosi risarcimenti (da devolvere in beneficienza, si capisce), Mottola la querela l’ha fatta e ha ottenuto la riparazione senza bisogno di infierire, perché, ha spiegato, «in presenza di scuse non vi è più motivo di proseguire azioni legali».
E ha commentato:
«Tengo a sottolineare che l’ordinamento liberaldemocratico – succeduto nel Mezzogiorno a quello assolutista con l’unificazione nazionale nel 1861 – da un lato tutela l’onore e il decoro delle persone dalle aggressioni morali, dall’altro garantisce appieno diritto di critica e libertà di pensiero, non conculcabili con l’uso intimidatorio di azioni giudiziarie».
Una lezione di stile da non sottovalutare e, aggiungiamo, di cui non approfittare troppo.
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Grazie come sempre per la sua puntuale informazioni su temi storici e un motivo i più per leggere libri come quelli di Mottola che fanno vera ricerca storica da lei citati. Un cordiale saluto
Fernando De Santis