Che Senato avremo? La Camera delle autonomie
Dovrebbe rendere più veloci e agevoli i processi legislativi e far sentire a Roma la voce dei territori. Ma c’è chi ne dubita e non a torto
Nonostante le rassicurazioni del Pd, che ha promesso una legge per la designazione (parlare di elezione è almeno prematuro, visto che non si sa ancora come funzionerà questa normativa) dei senatori, il Senato continua a somigliare all’ircocervo, la creatura fantastica inventata da Benedetto Croce per indicare cose inesistenti e illogiche.
Questa, infatti, è la parte più debole e ambigua di una riforma in cui pure le ambiguità e i punti deboli non mancano. Anzi.
Sono ambigue, innanzitutto, le formule con cui è stata presentata la riforma in questione.
Non è vero, per dirne una, che verrà abolito il Senato. Semmai, verrà abolito il Senato attuale, che verrà sostituito da un “Senato delle autonomie” le cui funzioni sono tutte da vedere (e non pochi, al riguardo, pensano, che non funzionerà, se non a pezzi e bocconi).
È vero, invece, che verrà abolito il bicameralismo “perfetto” o “paritario”, cioè non ci saranno più due camere simili che fanno le stesse cose, che è una peculiarità tutta italiana. Ma è vero pure che pagheremo questa semplificazione, più apparente che reale, con molte complicazioni. Infatti, la semplificazione di questa riforma riguarda solo i rapporti tra Governo e Parlamento, visto che il nuovo articolo 55 della Costituzione riserva alla Camera il rapporto di fiducia e d’indirizzo politico. Sarà complicato, e non di poco, invece, il procedimento legislativo, per tutte le materie in cui il nuovo Senato potrà metter becco.
Infine non è vera neppure l’argomentazione del risparmio: certo, saranno tagliati gli stipendi dei senatori attuali, che gravano per 50 milioni annui sulle tasche dei cittadini. E sarebbe meno della classica goccia nell’Oceano. Ma anche se si abolisse del tutto quest’istituzione – o, per lo meno, la si portasse al minimo – e si risparmiasse il miliardo e mezzo complessivo del suo costo, non si sarebbe ottenuto granché di fronte ai circa 800 miliardi annui di spesa pubblica totale. Sarebbe come provare ad arrestare un’emorragia chiudendo uno o pochi capillari quando le arterie perdono litri interi.
Per tornare alla riforma, cosa farà il “Senato delle Autonomie”? Sappiamo già, visto che è la parte più divulgata – anzi propagandata – del dibattito referendario, che Palazzo Madama 2.0 ospiterà 100 senatori al posto degli attuali 315 e che questa centuria sarà composta da 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica e che resteranno in carica per 7 anni, 22 sindaci (uno per Regione e Provincia autonoma) e 73 consiglieri regionali (minimo due per Regione e Provincia autonoma). Su quest’ultimo aspetto, cioè le modalità di nomina dei consiglieri-senatori, prendiamo per buone la promessa di Renzi di promuovere, a riforma approvata, una legge elettorale che consentirà agli elettori, in occasione dei rinnovi dei vari consigli regionali e delle Province di Trento e Bolzano, di esprimere una doppia preferenza, per il consigliere prediletto e per quello che si vuol mandare in Senato.
Le dichiarazioni di Renzi, della Boschi e di chi per loro chiariscono non poco il quadro. Ma non eliminano un dubbio di fondo: che cosa rappresenteranno questi senatori bonsai? L’articolo 55 della nuova Costituzione dice che «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali». E sin qui si capiscono due cose. La prima: per i senatori non esiste il divieto di vincolo di mandato, che continua a esistere per i deputati, che invece continuano a rappresentare la Nazione. La seconda: il vincolo di mandato significa che i senatori-nani dovrebbero avere un ruolo “amministrativo” e non “politico”. Se le cose stanno così, anziché prevedere meccanismi elettorali complicati, non sarebbe stato più semplice designare i presidenti di Regione come senatori? Val la pena di ricordare, infatti, che il rappresentante della Regione come ente è il presidente e non il consigliere, che invece ha un ruolo più “politico”.
Ma il peggio deve ancora arrivare e riguarda i compiti legislativi del nuovo Senato. In questo caso il nuovo articolo 70 della Costituzione, che secondo costituzionalisti del calibro di Zagrebelsky è congegnato e scritto peggio di un decreto “milleproroghe” (segno che oggi si può diventare costituzionalisti senza conoscere bene l’italiano…) genera un pasticcio assurdo.
Semplifichiamolo un po’
Il Senato continua ad approvare le leggi assieme alla Camera come prima solo nei seguenti casi: leggi di revisione costituzionale e costituzionali, leggi ordinarie sulle minoranze linguistiche, sui referendum, sui Comuni e sulle Città metropolitane, sulla formazione e sull’attuazione di norme dell’Unione Europea, sull’eleggibilità dei senatori, sulla normativa elettorale del Senato, sulla ratifica dei trattati dell’Ue, sull’ordinamento di Roma, sul regionalismo differenziato, sulla partecipazione delle Regioni speciali alla formazione e all’attuazione di norme Ue, sulle intese internazionali delle Regioni, sul patrimonio degli enti territoriali, sui poteri sostitutivi dello Stato nei confronti degli enti locali, sui principi della legge elettorale delle Regioni a statuto ordinario, sul passaggio di un Comune da una Regione all’altra.
Delle due l’una: o i costituenti di Renzi vogliono restituire alle autonomie ciò che hanno inteso togliergli con la riforma del Titolo V oppure queste funzioni sono una presa in giro.
Che succederebbe, ad esempio, se una legge dello Stato normale, in materia di patrimonio pubblico, contenesse norme sui patrimoni delle ex Provincie o delle Comunità montane e magari contenesse queste norme nello stesso articolo in cui viene trattato il patrimonio di qualche ex ente “parastatale”? Si divide comma per comma la legge oppure tutto quanto, anche ciò che non riguarda gli enti locali, deve essere vagliato anche dal Senato? Mistero.
Per il resto, il nuovo Palazzo Madama sembra una mosca messa lì apposta per dar fastidio alla Camera.
Infatti, il Senato deve necessariamente esaminare le leggi che invadono, secondo la clausola di supremazia statale, la competenza delle Regioni. Il potere è platonico, visto che l’esame è necessario ma non vincolante: una volta che la Camera ha approvato la normativa, il Senato ha 10 giorni di tempo per analizzare il tutto e approvare a maggioranza assoluta delle modifiche, su cui la Camera è tenuta a decidere, sempre a maggioranza assoluta.
Per la legge di Bilancio e per il rendiconto annuale l’esame del Senato è sempre necessario, ma il termine è un po’ aumentato: 15 giorni anziché 10. Dopodiché, come sopra, l’ultima parola tocca alla Camera.
Per tutto il resto, l’esame del Senato è possibile ma non necessario. Ma non si capisce perché i senatori possano prendersela più comoda: infatti, hanno 10 giorni di tempo per l’esame e altri 30 giorni per approvare modifiche eventuali, su cui comunque decide la Camera. Questa procedura ha solo l’effetto di allungare il processo legislativo, a dispetto del fatto (propagandistico…) che il ridimensionamento del Senato è stato voluto per semplificare la produzione legislativa, giudicata “lenta” e “complessa”.
Viene il sospetto, invece, che il Senato non sia stato abolito, come sarebbe stato opportuno se si fosse davvero voluto semplificare, solo per evitare le proteste di qualche potentato territoriale. A rileggere l’articolo 70, viene un altro dubbio: non è che Renzi & co. hanno deciso di ridimensionare il Senato solo per rendere più gestibile, a vantaggio dell’esecutivo, il rapporto di fiducia? Più che un “istituzionicidio” questa riforma sembra un aborto.
9,352 total views, 10 views today
Comments