Trump, ultimo atto?
C’è qualcosa che non quadra nell'”invasione” di Capitol Hill. Il presidente uscente alla fine ha accettato la sconfitta, ma troppe domande restano ancora senza risposte: siamo sicuri che lo strano moto di piazza, in cui i populisti destrorsi hanno emulato il luddismo dei movimenti “neri”, fosse spontaneo? E mentre il Deep State tentenna sull’impeachment Twitter banna Trump
Donald non molla. Anzi sì: alla fine il tycoon ha dovuto riconoscere la sconfitta, sebbene non si sia rimangiata una sola accusa di brogli elettorali.
Che probabilmente ci saranno stati: non c’è elezione presidenziale negli Usa che non sia accompagnata da sospetti, illazioni e accuse. Magari facilitate anche dal sistema di voto antiquato (i cosiddetti “grandi elettori”) e da procedure vintage (il voto per posta) che non sono il massimo della sicurezza.
Tuttavia, non si può ignorare un dato: la “spedizione” a Capitol Hill segna una cesura fortissima. Non tra la destra (istituzionale, cioè repubblicana, e “alt”) e la sinistra americane, bensì tra due modi di intendere e vivere la politica: da un lato le paure del Paese profondo, che in buona parte si è identificato con Trump, dall’altro le pulsioni di buona parte del Paese legale, che include anche una fetta di conservatori e repubblicani a cui i democratici sono riusciti a dare una voce su misura col grigio e compassato Biden.
Quest’ultimo sta rodando i motori con alcune mosse da politico consumato: innanzitutto ha finora respinto al mittente l’ipotesi dell’impeachment per il presidente in carica, perché sa benissimo che le accuse di eversione o di alto tradimento, per quanto valide a livello legale, non farebbero altro che inasprire a dismisura i trumpiani che non sono pochi né pacifici.
Su tutto, però, aleggia un interrogativo inquietante: possibile che un Paese dotato di diciassette agenzie di intelligence non sia riuscito a prevenire la “profanazione” del Campidoglio? Al riguardo, la facile obiezione che Trump esercita ancora il controllo sugli “spioni” potrebbe non reggere: gli Usa sono la nazione in cui l’Fbi riuscì a far fuori il ben più attrezzato Nixon usando il Washington Post come interfaccia.
La manovra – posto che una manovra vi sia – potrebbe essere più raffinata: non dare ostacoli all’invasione del Congresso per agevolare il suicidio politico di Trump.
Ma anche dal punto di vista del quasi ex presidente gli incidenti potrebbero essere in parte graditi: gli offrirebbero l’occasione di rafforzare ancor più il legame con lo zoccolo duro del suo elettorato e, magari, di gettare le basi almeno di un movimento d’opinione.
Giusto un altro passaggio per completare il quadro: gli “invasori” di Capitol Hill non erano una “folla” generica, ma un assieme di gruppi più o meno compatti e strutturati.
Abbiamo tutti appreso, dopo la baraonda del congresso in cui ha fatto bella mostra di se Jake “lo sciamano” (prova vivente che, almeno nel trash, certa destra è imbattibile), dell’esistenza dei complottisti di QAnon, dei criptofascisti Bogaloo e dei trumpiani a oltranza Proud Boys.
Di fronte a questo dato vogliamo credere davvero (o del tutto) alla storia del moto spontaneo, scatenato da Trump trasformatosi alla bisogna in una specie di Masaniello 4.0?
Non ci spingiamo oltre perché non vogliamo incappare in qualche “teoria del complotto”.
Piuttosto, torniamo al dato politico: quel che è accaduto ribadisce, per l’ennesima volta, che Donald Trump è un fuor d’opera del sistema politico americano come lo abbiamo conosciuto finora. Estraneo alla logica bipolare, il tycoon ha vinto le elezioni senza il supporto degli ambienti intellettuali neocon, che hanno mollato i Repubblicani e si sono schierati con la Clinton.
Sempre a proposito di repubblicani, è proprio difficile, inoltre, non registrare la tiepidezza con cui i conservatori Usa hanno sostenuto il presidente uscente nelle ultime elezioni e la raffica di dimissioni e passi indietro, persino tra i parlamentari, evidenzia un’altra cosa: Trump è stato una presenza più sopportata che gradita nel suo stesso partito, che ora tenta di smarcarsi come, probabilmente, non era accaduto per Nixon.
Da cosa deriva questa alterità, che rischia addirittura di assumere le forme di una potenziale guerra civile strisciante?
La risposta è meno banale di quel che si pensi: dal dialogo diretto e continuo tra leader e base. Un dialogo che si è svolto senza alcun intermediario: non i partiti, non i “comitati”, che Trump ha ridotto più degli altri suoi predecessori a mere macchine elettorali. Non i media, tranne quelli di sua proprietà.
Trump ha guidato l’America quasi a prescindere dal “Deep State”, che non è riuscito a dargli regole, e ha trattato le istituzioni come “cosa sua” in nome dell’“America profonda” di cui si considera tuttora interprete.
L’America a cui si rivolge Trump è composta da quei milioni di cittadini che vivono in provincia o stanno ai margini del sistema nelle metropoli.
E quest’America affonda le sue radici in quella working class considerata fino a qualche tempo fa terreno di caccia di certa sinistra, che ne minimizzava gli umori e la mentalità spesso sciovinisti. Inoltre, quest’America è interclassista e interrazziale come l’”altra”: Trump ha preso non pochi voti dagli afroamericani (che d’altronde votano repubblicano più di quanto appaia a noi europei), dai discendenti dei migranti italiani e dagli esponenti di varie minoranze etniche.
A questo punto, è necessaria una domanda: quest’America è un’invenzione del nuovo millennio? È un prodotto della crisi economica aggravata dalla pandemia o c’è sempre stata? La risposta sta nel mezzo: è il prodotto della disintermediazione operata dai social, che hanno dato voce a chi non l’aveva (e, magari, spesso non la meritava): ci si riferisce a certe caricature della destra sovranista e nazionalista, ai revanscisti del sogno americano, alle troppe sottoculture di nicchia che sono riuscite a far massa critica, passando dai tavolini dei bar ai new media senza alcun filtro.
Ma attenzione: quest’America esiste anche a sinistra e si fa sentire in maniera altrettanto fragorosa e pericolosa. Ci riferiamo agli eccessi di Black Live Matters.
Siamo davvero sicuri che la rivendicazione nobile di maggiore dignità per le persone di colore non diventi la scorciatoia per un razzismo alla rovescia, deprecabile come tutti i razzismi? E siamo sicuri che le isterie di certe destre radicali non siano anche una reazione alla furia iconoclasta della stessa estate?
Anche nel caso di Black Lives Matter si è presentata la stessa disintermediazione: tutte le proteste sono partite dai social senza freno e filtro alcuno. Anche nelle gesta di Black Live Matters ha agito il medesimo cocktail micidiale di rabbia e ignoranza.
E nessuno, populisti di destra e nuove sinistre più o meno radicali, riesce a esprimere una élite, cioè guide credibili (tale non si è dimostrato Trump) in grado di andar oltre il ruolo di megafono del malessere e di catalizzatore dell’ira.
E probabilmente questo è il vero problema della democrazia liberale, che funziona davvero solo quando riesce a esprimere leadership autorevoli in grado di identificarsi nelle regole del gioco e a farle rispettare.
Quando ciò non avviene, la democrazia si riduce a una semplice procedura che si riempie dei contenuti più disparati e contraddittori. E, peggio ancora, le fonti del consenso si spostano altrove. Ad esempio, nei social che abbiamo menzionato a più riprese.
A proposito, non è un caso che l’epitaffio della presidenza Trump, più che il Congresso e più che i risultati al Senato, l’abbia scritto Twitter bloccando gli account del presidente uscente: un privato ha tappato la bocca a un leader che vanta tuttora un seguito forte. Se non è crisi della democrazia questa…
Saverio Paletta
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