Parla il pregiudicato: «Perché non mi fanno lavorare?»
L’appello di Danilo Fiumara, sorvegliato speciale del Vibonese: «Le misure di sicurezza a cui sono sottoposto mi impediscono di lavorare. Come faccio a riabilitarmi se non posso uscire dal mio paese?» Il suo ristorante, aperto con tanti sacrifici, rischia di chiudere perché lui non può metterci piede fino a quando non finisce il processo
Ci ha scritto Danilo Fiumara, un 47enne di Francavilla Angitola, in provincia di Vibo Valentia. Fiumara, imputato nel processo Overing, ha ricevuto di recente una misura di sicurezza, la sorveglianza speciale con obbligo di dimora nel Comune di residenza, che gli impedisce di lavorare come cuoco nel locale che ha aperto nella vicina Pizzo. Gli appassionati delle cronache calabresi sanno già che Fiumara ha una condanna ai sensi dell’articolo 416bis del codice penale (associazione a delinquere di stampo mafioso). Lui, tuttavia, non nega gli addebiti: «Ho pagato quel che dovevo alla società», ci scrive nella e mail di accompagnamento alla lettera aperta che state per leggere, «perché ora non posso fare qualcosa di utile, legittimo e pulito per me e per i miei figli?». Certo, aggiunge, «rispetto le scelte di tutti e prima di giudicare invito tutti a immedesimarsi nelle vicende di chi ha percorso e percorre determinate strade per mancanza di alternative. Ecco, io cercavo di costruire la mia». Nei quotidiani, quando si pubblicano missive così delicate ci si limita a un secco e rituale: “riceviamo e pubblichiamo”. Noi aggiungiamo: leggete e meditate. Con la stessa serenità, si spera, con cui l’abbiamo fatto noi.
Cari concittadini,
Uso l’espressione in senso ampio e mi riferisco a chiunque possa leggere queste righe, perché, a prescindere dai miei errori (virtuali e reali, accertati e falsi), mi sento un cittadino come tutti gli altri e, nonostante tutto, nutro fiducia nelle istituzioni.
Mi rivolgo, soprattutto e ovviamente, all’autorità giudiziaria perché qualcuno ascolti il mio appello: non chiedo favoritismi e non mi permetterei neppure di invocare pietà o di invocare il residuo garantismo della nostra cultura civile. Me lo impedisce il senso di dignità che ho sempre coltivato, anche nelle situazioni più avverse, anche nei momenti più bui del carcere duro, un’esperienza che non auguro a nessuno.
La dico tutta: sono un mafioso perché una sentenza, con cui mi è stata irrogata una condanna ai sensi dell’articolo 416bis del codice penale, mi ha definito tale. Ho accettato e scontato questa pena. Così come ho sopportato tutte le misure che negli anni mi sono state inflitte, anche quelle che poi sono risultate, a giudizio della stessa magistratura che me le aveva applicate, infondate.
Ripeto: nonostante tutto, credo di essere una persona coscienziosa. E non mi sono mai ribellato ai precetti dell’autorità.
Perciò vi chiedo il minimo di pazienza necessario a leggere e, se proprio volete, meditare quel che sto per dire.
Ho appena ricevuto una misura di pubblica sicurezza, l’ennesima in pochi anni. Chi si è trovato in guai simili ai miei mi capirà al volo: in gergo la si chiama “sorveglianza speciale” con obbligo di soggiorno. Detto altrimenti, non posso allontanarmi dal mio Comune di residenza, che è Francavilla Angitola, confinante con Pizzo. A Pizzo ho aperto un locale, grazie alla benevolenza dei miei familiari e dei miei suoceri (e non, sfido chiunque a dimostrare il contrario, con i presunti proventi di chissà che illeciti), nei confronti dei quali sono indebitato fino all’osso. Già: i soldi si prestano volentieri ai familiari in difficoltà, ma devono comunque essere restituiti perché non ci si può approfittare di chi ci vuole bene.
Ora, Francavilla dista da Pizzo solo due chilometri, ma a causa di questa misura è come se fossero duecento. È vero: la sorveglianza speciale mi è stata irrogata perché sto tuttora affrontando un procedimento giudiziario, nel quale, tuttavia, rilevo che i miei coimputati nel reato specifico contestatomi sono stati tutti più o meno prosciolti. Io gestisco un’attività pubblica per conto di mia moglie: faccio il cuoco e, a detta dei clienti, neppure tanto male. Ma ciò che più conta è che faccio tutto questo sotto gli occhi di tutti e che il locale che ho tirato su non è certo quel che si dice un posto equivoco.
Ecco, da ora in avanti non potrò più metter mano ai fornelli finché anche io non sarò prosciolto, esito sul quale io i miei legali siamo fiduciosi, oppure non mi sarà revocata la misura. E non credo che sia attività socialmente pericolosa, se non nei confronti di chi ha problemi di trigliceridi e di colesterolo, cucinare bistecche.
Al posto mio lo farà il ragazzo che mi ha aiutato in cucina e che, assieme a me, ha respirato i fumi delle piastre e delle griglie.
Morale della favola: si dice che le pene debbano aiutare il reo a redimersi. Me lo dissero quando ero sotto processo e l’ho letto nelle lunghe ore di carcere nei libri di Voltaire e Beccaria, che mi regalarono gli avvocati perché passassi il tempo imparando qualcosa di utile. Si dice che si debba sempre e comunque consentire alle persone il reinserimento nella società. Ed è quello che ho provato a fare e che per l’ennesima volta mi è stato impedito nei fatti.
Nel 2014 mi ero recato in Austria per rimettere assieme la mia vita, non per fare il latitante o gestire chissà che traffici. Anche lì avevo aperto un ristorante. Mi arrestarono e mi costrinsero a chiudere l’attività. Ho provato a rimettermi in piedi a Pizzo. E ora anche questa mia nuova attività lecita (ribadisco: cucinare bistecche è più pericoloso per me, visto che il medico mi ha fatto capire di dover perdere peso, che per gli altri) è a rischio.
Io ho 47 anni e tre figli e questo locale l’ho aperto soprattutto per loro. L’ho aperto perché la mia famiglia abbia un punto fermo, economico e morale. Perché, l’ho capito dopo anni di sacrifici, solo il lavoro duro, continuo e serio paga. E dà l’esempio.
Io pericoloso? Lo sarei se potessi andare in moto, perché a detta di qualche amico sono un potenziale pirata della strada. Ma anche guidare qualcosa di più potente di una bici in questa situazione mi è praticamente impossibile.
Chiudo con una battuta, che spero non sia fraintesa. Uno dei miei avvocati mi diceva che nell’antico diritto romano i processi, civili e penali, erano strutturati come scommesse: chi perdeva pagava perché aveva perso la sua scommessa. Mi permetto di scommettere anche io: se dovessi risultare colpevole al di fuori di ogni ragionevole dubbio di tutti i capi di imputazione che mi sono stati addebitati, sono disposto a pagare la mia pena e di più. Ma se non fosse così, chi mi restituirà l’ennesima occasione persa di riprendermi la mia dignità e restituirla al cognome che portano i miei figli?
Auguri di Buon Natale
Danilo Fiumara
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