Primati neoborbonici, sette casi inesistenti
A dispetto dei toni enfatici di Gennaro De Crescenzo, molte iniziative, in sé ottime, intraprese dal regime borbonico non furono primati: altri realizzarono prima (e a volte meglio) idee simili…
Lo avevamo promesso in una nostra replica a un articolo apparso sul sito ufficiale del Movimento Neoborbonico (leggi qui) e lo manteniamo: ecco a voi la confutazione di altri sette presunti primati attribuiti da Gennaro De Crescenzo, il presidente del Movimento in questione, al regime dei Borbone di Napoli.
Prima di procedere, è opportuno ricordare che questa lista è apparsa in più versioni e risulta piuttosto mutevole: c’è una prima versione pubblicata sul sito web del Movimento (leggi qui) e ce n’è una più recente ne Il libro dei primati del Regno delle Due Sicilie dal 1734 al 1860. 135 record descritti, illustrati e documentati del menzionato De Crescenzo (Napoli, Grimaldi & C. 2019).
In alcuni casi, i primati contenuti nella lista gratuita online coincidono con quelli riportati nell’elenco, decisamente costoso (circa 61 euro nei principali bookstore) contenuto nel libro. In altri no, segno che il compilatore ha fatto qualche aggiustatina, magari perché nel frattempo confutato oppure perché si è accorto di qualche errore.
Noi ci limiteremo ad indicare i casi in cui un singolo primato del libro non coincide con quello della lista e viceversa.
Inoltre è doveroso ricordare un’altra cosa: smantellare una lista di primati che in realtà non risultano tali non significa voler sminuire a tutti i costi ciò che di buono si è fatto nel Sud preunitario, perché è giusto e importante ricordare le eccellenze e le positività, quando sono vere (e di eccellenze e positività la Napoli sette e ottocentesca era piena).
Il problema è che per primato si intende una cosa fatta prima o meglio rispetto ad altri. E questo non si può proprio dire per i casi che stiamo per analizzare, perché qualcuno quelle stesse cose le ha fatte prima e, talvolta, meglio.
La logica dei primati non ci piace perché ricorda più la mentalità becera di certe tifoserie che l’orgoglio pacato che dovrebbe avere di chi considera la storia una faccenda seria.
Ciò detto, procediamo con lo smantellamento di sette primati inesistenti.
- 1782. Primo intervento in Italia di profilassi antitubercolare.
È senz’altro un merito del governo di Ferdinando I di Borbone aver preso provvedimenti nei confronti di una malattia che all’epoca mieteva più vittime dell’attuale Covid-19.
Ma ’o Re Nasone era arrivato piuttosto tardi: già nel 1735 la piccola Repubblica di Lucca aveva istituito dei centri appositi per la cura della tubercolosi, con relative misure di isolamento e quarantena.
- 1813. Primo manicomio in Italia ad Aversa.
Non ce ne vogliano i neoborb: se la cronologia non è un’opinione il primato sarebbe da attribuire a Gioacchino Murat che ancora era re di Napoli. Tuttavia la questione è di lana caprina perché il primato semplicemente non esiste.
L’Italia, purtroppo, contava parecchi manicomi da secoli. Un esempio è offerto dall’Istituto di Santa Maria della Pietà, fondato a Roma nel 1584 e diventato manicomio a tutti gli effetti a partire dal 1635, in seguito a un ordinamento specifico voluto dal cardinale Francesco Barberini su ordine di papa Urbano VIII. Se ciò non bastasse, si possono citare i casi di Torino, dove esistevano analoghi istituti già nel 1728 e di Feltre, dove un manicomio fu istituito nel 1775.
A voler proprio fare un complimento, si potrebbe dire che il Regno di Napoli arrivò in ritardo su questo tema perché, a differenza di altri Stati preunitari non aveva quel gran bisogno di strutture psichiatriche. Già: nel Sud abbondavano gli intelligenti e non mancavano i furbi. E forse i pazzi erano una minoranza trascurabile…
- Prima scuola italiana per sordomuti,
Altra iniziativa buona e giusta, presa sotto il governo do Re Nasone, con una buona tempistica, nel 1788. Peccato solo che l’abate Tommaso Silvestri ne avesse fondata una a Roma nel 1784. Il primato sfuma per soli quattro anni. Proprio sfortunato re Ferdinando…
- 1858. Primo tunnel ferroviario a Nocera.
In questo caso, onore al merito di Ferdinando II, un re sottovalutato e sin troppo bersagliato dalle polemiche dei liberali. In realtà, il Re Bomba aveva ben capito l’importanza dello sviluppo industriale e delle infrastrutture, tra l’altro con perfetto tempismo sulle esigenze dell’epoca.
Tuttavia, il governo dei suoi cugini Savoia aveva fatto prima e forse meglio: la linea ferroviaria Torino-Genova, completata nel 1853, contava diverse gallerie, tra cui la Galleria dei Giovi, lunga 3.254 metri.
Proprio sfortunato Re Bomba: prima di detronizzarne il figlio, i cuginastri gli avevano soffiato un primato. Quando si dice parenti serpenti…
- 1855. Primo telegrafo elettrico in Italia.
Prendiamo questo primato dal sito del Movimento Neoborbonico. Anche stavolta re Ferdinando II fu bravo ma sfortunato: la prima linea telegrafica in Italia risale al biennio 1847-48 e fu realizzata in Toscana da Carlo Matteucci per il governo del mite granduca Leopoldo II d’Asburgo-Lorena.
Secondo i criteri dell’epoca, l’opera non era proprio piccolissima, perché collegava Firenze, Pisa e Livorno. Certo, il colpo per la sottrazione del primato è stato meno pesante per Re Bomba, visto che il grado di parentela tra i Borbone di Napoli e gli Asburgo-Lorena era decisamente più sfumato rispetto a quello coi Savoia (ah, Caini!, per dirla col mitico Cetto La Qualunque…).
Tra l’altro, a parziale attenuante del granduca, si può dire che egli non fu l’unico a soffiare il primato: subito dopo di lui provvidero nientemeno che l’imperatore Francesco Giuseppe, il quale nel 1849 dotò Trieste di un ufficio telegrafico e, non pago, iniziò a costruire una linea telegrafica nel Lombardo-Veneto. In questo caso, la coltellata è proprio brutta, perché gli Asburgo (che dovevano proteggere le Due Sicilie in nome del legittimismo), almeno questo primato a Ferdinando II glielo potevano lasciare.
Già: se Francesco Giuseppe era arrivato a tanto, perché prendersela solo coi Savoia, che pure avevano iniziato a costruire telegrafi in quello stesso 1851? Ma il peggiore di tutti è stato il papa, che nel 1853 aveva iniziato a dotare di telegrafo lo Stato Pontificio… altro che acqua santa e acqua salata!
- 1853. Prima applicazione dei principi della scuola positiva penale per il recupero dei malviventi.
Qui si entra nell’altissima dottrina giuridica, in cui Napoli resta un’eccellenza mondiale. Solo che, riguardo a questo primato, i neoborbonici nutrono qualche incertezza, visto che appare solo sul sito e De Crescenzo non lo menziona nel libro (che, siccome costa non poco, deve contenere almeno dati credibili…).
A livello scientifico, si può dire che il recupero dei delinquenti fosse cosa buona e giusta ma che la scuola penale positiva c’entra ben poco. Almeno se con questo nome s’intende la corrente inaugurata ben dopo l’Unità d’Italia (per capirci, quando il Re Bomba non c’era più e Francesco II aveva rinunciato al titolo di re ed era semplicemente duca di Castro) da Cesare Lombroso.
Inoltre, Scuola Positiva fu il nome della rivista fondata dal criminologo Enrico Ferri assieme al suo maestro Lombroso e al magistrato Raffaele Garofalo nel 1891. Siamo sicuri che, da fine e scrupoloso dicitore, De Crescenzo abbia omesso questo primato nel libro per non avventurarsi su un terreno minato senza aver prima verificato. Tuttavia, potrebbe esserci dell’altro: la battaglia contro la scuola positiva è un must di Domenico Iannantuoni, compagno di lotta dei Neoborbonici e protagonista di una campagna politica e giudiziaria piuttosto sfortunata nei confronti del Museo Lombroso di Torino.
Perciò, siamo altrettanto sicuri che, da galantuomo qual è, don Gennarino non abbia voluto dare un ulteriore dispiacere al suo sodale. Tanto, primato più primato meno…
- 1838. Primo trattato internazionale e prima legge per l’abolizione dello schiavismo.
Vale quel che abbiamo detto sopra: il plauso a Re Bomba è doveroso, per quest’iniziativa umanitaria, buona, giusta e lodevole. Che però non è un primato, perché, come al solito, altri avevano provveduto prima.
A partire dalla Repubblica Ligure, che non aspettò trattati di sorta per liberare, nel 1797, i pochi schiavi rimasti sul suo territorio. Ai genovesi seguirono gli Asburgo, che abolirono la schiavitù nel Lombardo-Veneto a partire dal 1816, quasi a ribadire che tra schiavisti e assolutisti può esserci una differenza notevole.
Lo stesso anno, il Regno di Sardegna aderì al cosiddetto diritto di visita sulle navi (cioè ispezioni) per il contrasto al traffico di schiavi. A onor del vero, c’è da dire che la lotta allo schiavismo fu intrapresa dal fronte reazionario: infatti, il diritto di visita era stato inserito, assieme ad altre misure, nell’Atto Finale del Congresso di Vienna del 9 giugno 1815. Il ritardo del Regno delle Due Sicilie, rispetto alle iniziative degli altri legittimisti (e tali erano anche i Savoia nel 1838) resta significativo.
Ma, per quanto generoso, il tentativo di Re Bomba non fu neppure efficace. O almeno non del tutto: stando ad alcune ricerche alcuni casi di schiavitù erano presenti proprio a Napoli nel 1845, quindi sette anni dopo la supposta legge-primato. Di più: secondo alcuni studiosi, non sarebbe improbabile che alcuni schiavi si trovassero nella capitale delle Due Sicilie ancora nel 1856.
La fonte, ovviamente, è da prendere con le pinze, visto che si tratta di una dissertazione di dottorato, quindi senz’altro roba accademico-negazionista. Tuttavia, la menzioniamo, perché a nostro sommesso parere tutti hanno diritto di parola. Ma tutti tutti, persino gli accademici. In questo caso, Giulia Bonazza, autrice di Essere Schiavi. Il diritto abolizionista e la persistenza della schiavitù negli Stati Italiani preunitari (Phd Università Cà Foscari, Venezia 2016).
Per saperne di più:
Leggi il nostro articolo: “Le Due Sicilie e i primati che non esistono”
Leggi il nostro articolo: “Primati neoborbonici, sei casi nulli”
40,603 total views, 2 views today
Salve,
dottor Paletta io sono un giovane ragazzo a cui piace la storia reale per come è e spesso mi sono imbattuto in verità opposte scritte da libri di storia e altre fonti. ne ho letti tanti di autori dai revisionisti a gli altri del lato opposto. la cosa che mi sconcerta è che gli storici alcuni prendono alcune fonti altri altre fonti. quindi a mio avviso ci saranno sempre queste due fazioni. Comunque tornando all’articolo mi sono verificato i 7 casi è si in realtà non sono primati quelli citati. mi chiedevo ma gli altri 128? sono o no dei primati?
Egregio Salvatore,
le rispondo sulla base di quel po’ d’esperienza che ho accumulato e, da ragazzo non più giovane, mi permetto di darle qualche consiglio.
Innanzitutto, sull’uso delle fonti: è vero, non tutti usano le stesse fonti e non le usano allo stesso modo. Ciò non toglie, tuttavia, che esista un metodo in base al quale alcuni modi di procedere sono corretti e altri no. Ne offre un esempio Barbero, diventato la bestia nera dell’immaginario neoborb, nell’ultimo capitolo del suo “Prigionieri dei Savoia”, in cui critica il metodo usato dai “revisionisti”.
In seconda battuta, io non parlerei di “fazioni” in questo caso. E non perché le fazioni e le divisioni di campo non esistano tra gli storici. Anzi, è un bene che ci siano, perché la cultura e la verità storica sono il prodotto del dibattito continuo tra persone che la pensano diversamente. Ma le fazioni possono esserci tra persone simili. Il che non è per le polemiche tra gli storici – che sono professionisti dotati di competenze specifiche – e la maggior parte dei “revisionisti”, molti dei quali non sono neppure storici.
Arrivo ai “primati”: finora ne abbiamo confutati ventitré. Per gli altri stiamo provvedendo.
Ripeto, al riguardo, una cosa che ho detto e scritto più volte: il fatto che varie realizzazioni non siano “primati” non vuol dire che queste non servano a nulla. Spesso sono opere bellissime e importanti o iniziative utili. E allora, che importa se qualcuno ha preso certe iniziative prima o le ha sviluppate meglio?
La verità è che la ricerca ossessiva di “primati” riflette una mentalità paesana e, spesso, serve a coprire molte manchevolezze.
Le faccio due esempi recenti.
Sa quale era la migliore scuola di volo del primo dopoguerra? Senz’altro quella italiana, che si caricò di primati, come le trasvolate oceaniche di Italo Balbo. E non mancavano i virtuosismi: pensi che c’erano piloti abilissimi a volare con l’aereo capovolto.
Ma l’aviazione civile italiana restava comunque molto indietro e quella militare, non supportata da un’industria e da una tecnologia all’altezza, si rivelò insufficiente durante la guerra.
Stesso discorso per i primati sovietici nel volo spaziale. In questo caso, la discrepanza tra primati (primo uomo nello spazio, primi satelliti in orbita ecc) e la realtà di un Paese che arrancava nei trasporti di massa parla da sé. E questo discorso vale anche per il Regno di Napoli prima e delle Due Sicilie poi.
Non mi sembra ci sia altro da aggiungere.
Grazie per l’attenzione