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Ha vinto la Paura. I cittadini bocciano Renzi

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Dopo la valanga di no il diluvio?

La personalizzazione del voto e le ipocrisie dei corridoi. Gli errori della campagna referendaria

Matteo Renzi lo ha capito benissimo: il venti per cento di scarto non è una bocciatura nel merito, ma una sconfitta politica. E, alla mezzanotte del 4 dicembre, ne ha preso atto e ha mollato. «Il mio governo finisce qui».

Morale: non si può condurre una campagna referendaria seria come quella appena conclusa con un approccio da curva sud, perché cambiare una Costituzione non è la stessa cosa che conquistare un Comune di provincia, anche importante.

Renzi aveva già fatto un grosso strappo alle regole della democrazia occidentale, in cui aveva fatto passare il concetto di “governo costituente”. Una stranezza tutta italiana, che perciò ha fatto arricciare il naso ai costituzionalisti? Proprio no: semmai è una dinamica già sperimentata in Sudamerica e in qualche democrazia sorta dal crollo dei regimi comunisti, che ha spaventato gli addetti ai lavori. Anche quelli meglio disposti nei confronti del decisionismo dell’ex sindaco di Firenze.

Sia chiaro che non è stata tutta colpa di Renzi, perché la riforma della Costituzione era nata da un progetto condiviso, anche con quel centrodestra che poi si è tirato indietro al secondo round in Parlamento, dopo aver approvato la prima lettura.

La corsa in avanti di Renzi è stata soprattutto, e i numeri della sconfitta lo fanno capire con chiarezza estrema, il prodotto della solitudine politica e la personalizzazione della campagna referendaria è stata la strategia obbligata di chi si è ritrovato col cerino in mano.

Eppure, quella bocciata ieri dagli italiani era una riforma cucita su misura per quel popolo moderato che fino al 2012 aveva applaudito Berlusconi e poi ha visto con iniziale simpatia l’ascesa del sindaco di Firenze? E questo dato lo hanno evidenziato, quasi senza volerlo, gli stessi critici della Boschi-Renzi, quando hanno sottolineato le similitudini forti con l’altra riforma trombata alle urne: quella promossa dal centrodestra nel 2006.

Il giocattolo si è rotto perché era difficile da maneggiare e una buona fetta di quei moderati a un certo punto ha avuto paura.

D’accordo, il progetto di riforma era fatto male e risultava piuttosto pasticciato. Inoltre, l’idea di accorpare la proposta di revisione di metà della Carta fondamentale in un solo quesito è risultata infelice e ha obbligato molti moderati, ripetiamo impauriti dalle conseguenze della vittoria del sì, a rifiutare anche quelle parti della riforma che, prese singolarmente, avrebbero riscosso consenso: tra queste, la modifica al Titolo V.

È il caso di ribadire un concetto: non ha vinto Berlusconi, non ha vinto Salvini (che pure è stato il migliore in campo nel fronte del no), non ha vinto Grillo, il cui movimento è uscito appannato dalle vicende siciliane. Ha vinto la paura.

Già: il popolo moderato, a cui vanno aggiunti anche gli under ’40 sempre meno politicizzati, ha fatto il passo indietro perché il governo che ha proposto e sostenuto la riforma è lo stesso che ha tentato di tagliare le pensioni di reversibilità («Vogliono far cassa sulla pelle delle vedove», si disse allora).

Già: il governo che ha provato a metter mano alla Costituzione è lo stesso che ha gestito l’immigrazione in maniera pedestre, senza riuscire a conciliare il dovere umanitario di accoglienza con l’ordine pubblico. Ed ecco perché anche il Nord, zeppo dei migranti prodotti dal fallimento delle “primavere”, tra i quali è difficile distinguere il profugo dall’immigrato economico e dal potenziale terrorista, alla fine ha detto no, sebbene sia stata la parte del Paese in cui i sì sono stati di più (il che deve far riflettere i sostenitori del federalismo).

Già: il governo che ha provato “a cambiare” è lo stesso che, alla tutela dei risparmiatori, ha preferito quella delle banche, a cui, mentre la polemica iniziava a montare, è stata concessa alla chetichella la possibilità di riprendere a praticare metodi usurai.

Ed ecco che il risultato è stato la valanga di no, che, con la riforma, hanno seppellito anche Renzi e i suoi. Cose che capitano, quando si personalizza anche quel che non si dovrebbe.

La paura, anche quella di chi scrive, fa novanta? No, ha fatto venti e questo venti è bastato.

Ma gli entusiasmi del fronte del no non possono nascondere una verità, di cui ci si accorgerà di qui a breve: il Parlamento e i Consigli regionali continueranno ad essere zeppi di consulenti, inutili e privilegiati. Le autonomie, concepite male nel 2001 e realizzate peggio, continueranno a dar problemi al Paese, che in Europa si deve presentare intero e non a pezzi e bocconi. L’Italia continuerà a muoversi a più velocità. Anzi, lo farà più di prima, perché il no alla riforma suonerà come un sì a favore di chi ha abusato delle autonomie fino a degradare la politica al livello strapaesano.

Di più: la sete di potere di chi ha perso alle urne nel 2013 (il centrodestra), di chi non  ha mai gestito troppo (M5S) e di chi sembrava sparito dalla scena che conta (l’area postcomunista del Pd), ha ripreso subito a farsi sentire al suono di “elezioni subito”.

Questo perché in molti, nel fronte del no temono le riforme per lo stesso motivo per cui il fronte del sì le ha propugnate strenuamente: il desiderio di blindare il proprio potere e, se possibile acquisirne di più. In entrambi i casi sulla pelle e sulle tasche degli italiani.

Si può tirare il sospiro di sollievo per lo scampato pericolo di una riforma malconcepita. Ma, sia chiaro: gli italiani hanno preferito, col loro no, il demone all’incertezza, anche, forse per la troppa assuefazione all’odore di zolfo.

Si volterà pagina? Sì, ma solo con riforme, si spera concepite meglio di quella cassata alle urne. Dopo i facili entusiasmi è il momento della responsabilità.

Ognuno si assuma la sua.

Saverio Paletta

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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