Giornalisti, c’è del marcio in Danimarca
Lo scivolone di Feltri non bastava. Ora c’è un ex eroe dell’antimafia di carta indagato per calunnia e c’è un ex addetto stampa accusato di estorsione nei confronti dei suoi ex committenti politici. L’editoria è in crisi, ma il declino dell’informazione ha radici più profonde e non è questione di quattrini. Non solo, almeno…
Stavolta non si scampa, come cittadini e come giornalisti: il lockdown ci ha inchiodati alla tv e ai display e ci ha costretti a leggere, vedere e ascoltare di più.
Il che, specularmente, vuol dire che i cittadini ci hanno letti, visti e ascoltati di più.
E i nodi sono arrivati al pettine. Senza pietà.
La sequenza è spaventosa e non risparmia nessuno, a partire da una grandissima firma come Vittorio Feltri, finito nel tritacarne per le espressioni infelici (e infami) sui “terroni” sparate in diretta tv.
Poi è toccato a un altro totem della professione: l’antimafia a prescindere. Il nodo, stavolta, è stato piuttosto ingarbugliato e doloroso, come abbiamo appreso da Giornalisti Italia (leggi qui). Ci riferiamo alla storiaccia di Mario De Michele, ex direttore di Campania Notizie, finito sotto accusa per calunnia: secondo gli inquirenti della Dda di Napoli si sarebbe provocati da sé gli attentati (all’automobile e all’abitazione) che diceva di aver subito a opera dei soliti boss.
Quasi a puntuale commento della vicenda, è arrivato il commento di Claudio Fava, presidente della Commissione antimafia della Regione Sicilia e figlio di Giuseppe Fava, un giornalista che l’antimafia l’aveva praticata per davvero a danno dei potenti e sulla propria pelle.
Intervistato dal quotidiano La Sicilia in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, Fava è stato tranchant: «Se domani si incontra un giornalista che dice “io faccio il giornalista antimafia” bisogna farlo accomodare fuori. È una ritualità che produce carriere e toglie informazione». Parole sante.
Altro nodo, altro strappo: la richiesta di rinvio a giudizio di Luca Pasquaretta, ex addetto stampa di Chiara Appendino.
Pasquaretta, riporta sempre Giornalisti Italia (leggi qui) è accusato di estorsione per faccende legate a varie consulenze.
Nel suo caso siamo garantisti, sebbene l’accusa, che appare sufficientemente formalizzata getta ombre non bellissime sui legami, presunti e reali, tra sistema politico ed estabilishment culturale.
A mo’ di ciliegina su questa torta farcita di veleni, le dichiarazioni rilasciate da Carlo Verna, il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, a Il Riformista: «C’è tanto veleno nella categoria. Su questo nessuno ha la ricetta. Un clima imbarbarito dalle interazioni in Rete: prevalgono insolenza e ignoranza, anche tra i colleghi giornalisti. Il giornalista sui social a volte dà il peggio di sé. A tutti ricordo: il giornalista è giornalista sempre, qualunque tipo di comportamento è sanzionabile. Noi incarniamo la professione 24 ore al giorno». Impossibile dargli torto.
Quello di Verna, infatti, non è moralismo, ma preoccupazione per la china discendente presa dall’informazione, che va oltre la crisi dell’editoria e, soprattutto, non si esaurisce in essa.
La crisi dell’informazione è una crisi endogena, cioè nata e maturata all’interno del giornalismo ben prima della crisi dell’editoria.
Chi ha fatto in tempo a frequentare qualche redazione quando le vacche non erano ancora così magre ma riuscivano a dare ancora un po’ di carne e latte, ricorderà come il vizio di urlare i titoli o di esasperare i toni fosse già diffuso.
Stesso discorso per l’antimafia, che ha distorto non poco il diritto-dovere di cronaca. Nel corso degli ultimi trent’anni, l’antimafia di carta ha subito un’evoluzione particolare: è passata dalla nicchia al mainstream, dalla lotta al business ed è diventata una moda che ancora è lucrosa.
Ed ecco che, in barba a elementari norme di cronaca giudiziaria, il picciotto sfigato di quartiere, che vive persino ai margini della criminalità, è finito in prima pagina. Ecco che, tra uno strillo e un otto colonne, gli avvisi di garanzia sono diventati condanne di fatto. Ecco, infine, che il controllo delle fonti è stato minimo, come provano alcune recenti inchieste giudiziarie, in cui sono finiti sotto torchio per mafia esponenti di forze politiche di opposizione che puntavano il dito contro i collusi che, a differenza loro, stavano al governo…
Ma l’aspetto più spassoso di questa involuzione (o, se si preferisce, la distorsione più rumorosa) è un altro: vedere giornalisti notoriamente “di sinistra” assumere, sulla scia di certo Saviano, pose fascistoidi e darsi al culto del Law & Order a prescindere con forme e modi degni di certi almirantiani vecchia maniera, che notoriamente non frequentavano le redazioni anche per una legittima mancanza di sensibilità, che nei giornalisti dovrebbe invece essere doverosa.
Vogliamo parlare del mercimonio degli uffici stampa? Nel caso di Pasquaretta, detto “Il pitbull” (ma a vederlo in foto somiglia più a un innocuo carlino…) speriamo nell’infondatezza delle accuse, ripetiamo. Tuttavia, non sarebbe la prima volta che gli incarichi in enti e per eventi prestigiosi diventano occasione di mercimonio per consentire ai “padroni del vapore” di piazzare i propri protégées.
I pettegolezzi poi si sprecano, in tantissimi ambienti non solo professionali, su addetti stampa di enti sanitari che nella vita di tutti i giorni a malapena saprebbero distinguere tra un’aspirina e una chemio. Peggio ancora per gli enti economici. O vogliamo per caso parlare del mondo accademico? Logico che, se un laureato in lettere, quando va bene, si mette a discettare sul processo penale o sul 41bis, nessuno si deve scandalizzare se un giurista si mette a scrivere di medicina e un laureato in Scienze politiche delle nuove scoperte farmacologiche. Il tutto pagato con quattrini del contribuente, che in piena inconsapevolezza finanzia gli uffici stampa ancora lucrosi.
Nessuno di questi nodi, venuti al pettine della crisi ventennale della stampa aggravata ora dal Coronavirus, ha direttamente a che fare con l’editoria. Ma tutti dipendono da un declino generalizzato, subito dal giornalismo come da altre professioni, che riguarda soprattutto valori “immateriali”, che hanno poco a che fare coi quattrini: la credibilità, la competenza e (quindi) la deontologia.
Dal punto di vista economico, noi giornalisti non abbiamo affatto il monopolio della crisi e della conseguente povertà: vogliamo parlare dell’esercito di ingegneri, chimici, progettisti e ricercatori che cercano scampo in cantieri improponibili, in laboratori d’analisi di provincia e nelle poche briciole lasciate dal crollo del nostro sistema industriale? O vogliamo parlare delle frotte di avvocati e commercialisti che si precipitano a tentare concorsi altrimenti snobbati pur di sbarcare il lunario? O, peggio ancora, vogliamo parlare dei medici che si adeguano a fare i portantini pur di mettere piede in un ospedale o in una clinica?
Il problema reale sta tutto in un cedimento complessivo, iniziato quando esistevano poche piattaforme (la carta e l’etere) in regime di oligopolio. Allora era ancora possibile selezionare. Ora può essere davvero troppo tardi.
Sarà pure vero che il basso livello medio dei giornalisti, di noi giornalisti, dipende da certa editoria. Ma è vera pure la reciproca: la scarsa coscienza professionale, unita a criteri di selezione superati, legittima certa editoria a lavorare al ribasso. A preferire la bassa qualità perché costa di meno e perché la qualità vera non è garantita.
Se Feltri (che nei suoi anni d’oro è stato un maestro) è riuscito a scendere così in basso, come si può pretendere che mantengano il livello e il contegno le nuove generazioni, che al massimo hanno potuto frequentare qualche master, insufficiente a sostituire la formazione sul campo?
Noi giornalisti abbiamo perso il monopolio della cronaca, sottrattoci dai social, dopo aver perso quello degli approfondimenti, soffiatoci dai blogger da circa venti anni.
Dobbiamo correre ai ripari, perché se ci facciamo rubare le poche competenze rimaste, sulle quali possiamo ancora dire qualcosa, allora non ci sarà più nulla da fare. Non perderemo solo il lavoro, che è sempre meno, per noi come per tutte le altre categorie, ma la nostra ragion d’essere. E allora non ci saranno santi che tengano…
Saverio Paletta
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