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La didattica online? Una svolta

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L’uso delle tecnologie informatiche nell’insegnamento, già sperimentate con successo dalle Università online, potrebbe risollevare non poco gli istituti pubblici di alta cultura. Le videolezioni distruggono i rapporti umani, come sostiene tra gli altri Alessandro Barbero? Proprio no: se i docenti sono all’altezza, il problema non esiste

L’irruzione forzata e inaspettata della didattica online suscita in questi giorni lo sdegno di un sempre più nutrito gruppo di intellettuali che l’aggiungono, non senza esagerazione, alla serie più o meno lunga, a seconda dell’inclinazione ideologica del commentatore di turno, dei nemici dell’umanità. Capita che sia indicata tra le conseguenze più malefiche della crisi che stiamo attraversando o additata come l’ultimo (in ordine di apparizione) strumento tecnologico di distruzione capitalistica dei rapporti umani, con l’aggravante, in questo specifico caso, dell’ennesimo tradimento alla naturalità e alla spontaneità della vita.

Una lezione online

Insomma, secondo alcuni intellettuali chiamati a pontificare dal comfort del loro salotto, radical sì, ma casalingo per via delle restrizioni alla libertà personale imposti dai decreti anti-coronavirus, e paradossalmente a distanza, la nuova parola d’ordine è: astenersi dalla didattica online!

C’è chi, come Alessandro Barbero, vi scorge nient’altro che il prodotto di una «infatuazione per la tecnologia e l’innovazione», qualcosa di irriflessivo, del tutto transitorio, che non potrà, e soprattutto non dovrà, sostituire il «contatto diretto». Stupisce che proprio Barbero, abituato com’è a bucare il video attraverso le telecamere televisive, da cui impartisce egregiamente lezioni ad uso di un pubblico più ampio di quello dei suoi corsi universitari e dei lettori dei suoi libri, ora si preoccupi dell’uso emergenziale di una piccola webcam per le lezioni scolastiche e universitarie.

L’attacco a questo nuovo medium didattico, in realtà, diventa il pretesto per la ripresa del vecchio e mai sopito sogno di redenzione universale che ci riporti alla saggezza degli antichi. Pratica, questa del ritorno al romanzo repubblicano dei Greci che, ricordava David Hume, «influenza perfino le persone dotate di profondo giudizio e della più vasta cultura», diventando una specie di mito incapacitante. Eppure basterebbe che i lodatori della superiorità degli antichi e della loro assai presunta tendenza a considerare l’altro di più e meglio di noi moderni, massa di individualisti, capitalisti, ecc., ricordassero che la base economica della società degli antichi era la schiavitù, vale a dire l’istituto più truce che la storia umana abbia conosciuto.

Lo storico Alessandro Barbero

Va da sé che questa retorica anti-tecnocratica al tempo del coronavirus rischia di infliggere il colpo di grazia al variegato mondo dei saperi, specialmente a quello delle discipline umanistiche. Chi ne legittima la potenza persuasiva evita di prendere atto che, storicamente, l’innovazione introdotta, in tempi di guerra, in un particolare ambito di esperienze ha sempre finito per interessarne altri apparentemente distanti. Per esempio, la staffa, che fu l’innovazione più importante nel mondo militare tardo-antico e medievale, per la stabilità e i movimenti complessi che garantiva, fu utilizzata con successo anche in agricoltura e nei trasporti. La propulsione a diesel, che fece la sua comparsa nei carri armati della prima guerra mondiale, avrebbe motorizzato, grazie all’uso massiccio fattone dalla Volkswagen, tutta l’Europa. Discorso simile per l’aviazione pesante che arrivò con le temibili fortezze volanti della Seconda guerra mondiale, e che, dopo il conflitto, avrebbe lanciato le basi per il trasporto aereo di massa. Internet, introdotto nella fase dei trattati di pace della guerra del Vietnam, è oggi la comunicazione di massa per antonomasia. Se, insomma, la storia è stata sempre gravida di incivilimento tecnologico delle società, a partire dai momenti di peggiore crisi, perché dovrebbe sterilizzarsi proprio adesso?

Le crisi sono vere e proprie prove per cui chi le supera si trasforma, adeguando i sistemi di relazioni umane e fornendo nuovi possibili orizzonti di senso al nostro vivere complesso.

Uno di questi orizzonti di senso è senz’altro la didattica online. I pericoli che essa cela, sotto il profilo strettamente empirico, può scorgerli solo chi non dispone del minimo sindacale richiesto a un docente: proprietà di linguaggio, capacità di suscitare curiosità e attenzione nei discenti, disponibilità di argomenti. Ma, vivaddio, contiamo su un corpo docente attrezzato in termini di know how, almeno sulla carta.

Il filosofo David Hume

Certo, la consapevolezza di raggiungere gli studenti a casa e nelle loro famiglie espone il docente poco attrezzato a un uditorio molto più eterogeneo di quello ristretto nelle aule tradizionali, il che, specie al cospetto di famiglie acculturate, potrebbe anche prestarsi a valutazioni allargate della qualità didattica.

Se questo non è un bene, comunque non aggiunge e non sottrae nulla, in termini di potenziale utenza di pubblico, a una trasmissione televisiva o radiofonica di approfondimento culturale.

E per di più garantisce un bilanciamento di valori: la trasmissione della conoscenza, da un lato, e l’impatto mediatico, dall’altro. In presenza di sacche di analfabetismo di ritorno o di «legioni di imbecilli» di echiana memoria, l’utilizzo di un unico mezzo per veicolare l’attenzione simultanea di studenti e famiglie è addirittura un miracolo. La scuola e l’università, che di fatto hanno sempre escluso i genitori dalle lezioni ordinarie, così possono ammetterne la partecipazione libera, immediata e comoda. Cosa c’è di più democratico, equo e solidale?

Infine, la metodologia didattica a distanza ha persino il merito di implementare quella frontale tradizionale, senza tuttavia sostituirsi ad essa, consentendo alle nostre università pubbliche di iniziare a competere con quelle on-line. Certo, anche questa, come tutte le altre tecnologie, presenta dei costi, e i produttori di piattaforme sarebbero i primi a lucrarvi. Ma il problema non si porrebbe nemmeno se i dipartimenti e laboratori di ingegneria informatica delle nostre università pubbliche (ne esistono di eccellenti) anteponessero l’interesse comune a quello corporativo o privatistico e iniziassero a progettare in favore delle università di appartenenza delle piattaforme gestibili in autonomia e a costi prossimi allo zero.

Spartaco Pupo

Professore associato di Storia delle dottrine politiche-Università della Calabria


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