Foibe, chi gioca sporco sul Giorno del ricordo?
Il presidente Mattarella è stato tirato per la giacchetta in occasione della commemorazione del 10 febbraio e ha messo una pietra sulle polemiche: fu pulizia etnica. Ma le liti sulla memoria continuano e stavolta i “revisionisti” sono i “rossi” dell’Anpi e dell’ultrasinistra
Dopo la mezza pausa del 2019 le polemiche sul Giorno del ricordo sono riesplose quest’anno con una certa forza. E forse non è difficile capire perché.
Anzi: i perché, visto che di motivi ce ne sono almeno due, uno di natura generale e l’altro contingente, ma legato al primo.
Il primo motivo è che la celebrazione della tragedia delle ex zone italiane del confine orientale resta forse una delle poche occasioni per alcuni ambienti di polarizzare la memoria e continuare a giocare a fascisti e comunisti come se nulla fosse. Come se da quei drammi, che aspettano ancora una narrazione definitiva (e condivisa), non fossero passati più di sessant’anni.
Il giocattolo è troppo ghiotto per entrambe le parti della contesa.
Lo è senz’altro per una certa sinistra radicale (e spesso radical chic) che trova nell’esaltazione acritica della Resistenza spunti polemici per emergere dalla progressiva irrilevanza politica e culturale.
Ma lo è soprattutto per le destre, radicali e non, che cercano di capitalizzare – anche sotto l’ombra confortevole dei risultati elettorali – i drammi delle foibe e dei profughi, che, a livello di comunicazione politica, sono tra gli ultimi lasciti del vecchio Msi e costituiscono ancora un core business propagandistico da non sottovalutare.
Il secondo motivo è di facile comprensione: la presenza della Lega al governo aveva garantito una specie di scudo. Che è venuto meno quest’anno, con l’ingresso del Pd di Zingaretti al governo. E non è improbabile che certi ambienti dell’autonomia e delle controculture che si agitano all’estrema sinistra abbiano presentato il conto.
A sinistra funziona sempre così: il Pd più perde numeri più si smodera. E quando si smodera subisce un certo vintage che non riesce ad archiviare. Quando, invece, si modera, archivia male e subisce i contraccolpi. È il dramma di un partito che non ha mai avuto le idee chiare almeno su due concetti: riformismo e socialdemocrazia.
Di tutto ciò sono un esempio le oscillazioni nel rapporto con l’Anpi, molto teso nell’era Renzi (soprattutto durante la campagna referendaria, in cui l’Associazione dei partigiani rossi si schierò per il no) e apparentemente rilassato nell’era zingarettiana.
Il mutamento di clima lo si percepisce anche dalle polemiche scatenate dal seminario organizzato dall’Anpi lo scorso 4 febbraio a Roma, intitolato Il fascismo di confine e il dramma delle foibe, a cui ha partecipato, tra gli altri, uno storico di vaglia come Giovanni De Luna.
Ora, avrà pure ragione Gianfranco Pagliarulo, il vicepresidente dell’Associazione partigiana, a dire (ciò che tra l’altro ha fatto nella sua relazione conclusiva) che la vicenda del confine orientale italiano è complessa e che la strumentalizzazione politica non aiuta a capirla. Ma è altrettanto vero che se questa invocazione della complessità si riduce a rimettere in circolo le vecchie tesi, predominanti per decenni (la rappresaglia antifascista, il clima di guerra civile, la ritorsione contro i presunti crimini italiani e via discorrendo), non si fa altro che spostare indietro le lancette di oltre un trentennio.
E allora non ci si deve meravigliare di due cose.
Innanzitutto, della reazione dei vari gruppi di destra, di area potenzialmente governativa (Lega e Fdi) e, come si diceva una volta, extraparlamentari per vocazione e sfiga (Casa Pound e Forza Nuova), che hanno ribattuto punto per punto alle polemiche dell’Anpi. E lo hanno fatto con definizioni pesantissime, che rovesciano letteralmente la prospettiva della polemica: hanno accusato l’Anpi e i vari gruppi ultra sinistra di revisionismo e negazionismo.
Le stesse accuse che, fino a qualche decennio fa, venivano rivolte a big della storiografia del calibro di Renzo De Felice ed Ernst Nolte (revisionismo e giustificazionismo) o a personaggi deliranti come David Irving (negazionismo).
Il parametro, grazie alla vicenda delle foibe, si è rovesciato e forse non par vero a chi, fino a non troppo tempo fa, era ai margini della vita culturale, di poter fare ad altri ciò che aveva subito.
Ma queste sono solo le miserie di un dibattito in cui la cultura e la storia vere c’entrano davvero poco.
Ciò che rende tutto ancora più misero è che a questo dibattito ha dato uno stop Mattarella con una dichiarazione che, più che negli anni passati, sa tanto di verità di Stato:
«Esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante, oggi il vero avversario da battere, più forte e insidioso, è quello dell’indifferenza, del disinteresse e della noncuranza che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi».
Di più:
«La dittatura comunista scatenò, in quelle regioni di confine, una persecuzione contro gli italiani, mascherata talvolta da rappresaglia per le angherie fasciste, ma che si risolse in una vera e propria pulizia etnica, che colpì in modo feroce e generalizzato una popolazione inerme e incolpevole».
Ma il fatto che il capo dello Stato sia dovuto intervenire non per commemorare, bensì per dare un’interpretazione è grave. E forse non è un caso che Nicola Zingaretti, subito dopo l’intervento di Mattarella, sia andato a rendere omaggio alla comunità giuliano-dalmata di Roma.
Questo gesto essere il segnale positivo che una verità vera – cioè non di parte, ma universalmente accettabile – può e deve essere cercata nell’interesse senz’altro di tutto il Paese, ma soprattutto dei destinatari immediati di questa verità: i profughi e i loro eredi, sui cui dolori in non pochi a destra hanno speculato. E, con loro, tutti quei cittadini dei Paesi della ex Jugoslavia che sono passati da una tragedia all’altra: dalle repressioni titine, che provocarono circa un milione di morti, all’incredibile mattanza degli anni ’90.
Già: gli italiani che vivevano a oriente del nostro Paese si trovavano, contemporaneamente, a occidente della polveriera balcanica e furono tra le vittime, una goccia in un mare di sangue, di una politica repressiva unica, per ferocia e, purtroppo, per efficacia.
E allora, restituiamo la storia agli storici, perché ne facciano finalmente Storia, vera e per tutti.
Al momento non possiamo non dare ragione a Marinella Salvi, che sul Manifesto dell’11 febbraio ha scritto: La destra cavalca il giorno del ricordo. Certo, è solo un titolo, che condisce male il classico articolo carico del solito vintage antifascista. Ma è vero pure che sui profughi e sulle vittime la destra ha speculato alla grande, solo perché la sinistra ufficiale lascia fare a una sinistra ufficiosa, numericamente ridotta, a volte caricaturale e spesso perniciosa, che continua a vivere col torcicollo e, soprattutto, a operare distinzioni in un argomento delicato e tragico.
Già: come si può pretendere che una certa destra becera non cavalchi certi destrieri quando certa sinistra si lascia andare a pacchianate offensive, come ad esempio è avvento a Trieste, dove nel bel mezzo di una commemorazione pubblica, alcune persone hanno sventolato la vecchia bandiera jugoslava?
Ma siamo seri.
Davvero ci sono altri problemi.
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