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Tornano i Jennifer Gentle, parla Marco Fasolo

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Il leader della band veneta, che ha ripreso a calcare le scene dopo nove anni, racconta le nuove ispirazioni artistiche e fa il punto sulla scena indipendente: «L’indie? Ormai è solo un cliché»

Il progetto Jennifer Gentle nasce nel 1999 da un’idea di Marco Fasolo e si ispira ad un periodo musicale che abbraccia gli anni ’50, ’60 e ’70. Lo stile sonoro oscilla tra garage punk, rock psichedelico e rock ’n’ roll anni ’50.i

I Jennifer Gentle

Sei dischi alle spalle e la collaborazione con la Sub Pop. Dopo nove anni di silenzio la band è tornata con l’omonimo Jennifer Gentle, uscito per l’etichetta indipendente La Tempesta. Ne parliamo direttamente con Fasolo.

Il settimo album prende il titolo dal nome del gruppo. Una scelta curiosa, perché in genere gli artisti danno il proprio nome al primo disco. Questo è il disco che meglio vi rappresenta?

Col senno di poi potrei anche rispondere di sì. Appena finisco un disco mi viene subito in mente il nome adatto, ad esempio per Funny Creatures Lane avevo immaginato questo sentiero pieno di creature strane. Per questo disco, invece, il titolo non arrivava. Forse perché ha una durata più lunga e risulta più eterogeneo, nulla riusciva a dargli un senso. Perciò ho pensato che il nome del progetto, che è questa strega presa dalla canzone dei Pink Floyd, poteva in qualche modo coglierne il significato.

Ho letto in un’intervista la tua dichiarazione sull’aggettivo psichedelica con cui si tenta di definire la vostra musica. La trovi una denominazione un po’ riduttiva. E lo si percepisce dalle sfumature di questo nuovo disco. Non vi chiedo di fornire un’etichetta ai lettori, certo. Ma come vorreste essere descritti senza per forza rientrare in un genere?

Essendo diventato un cliché, spesso si pensa all’improvvisazione. Mi piace la forma canzone variopinta come tante ne hanno fatto Beach Boys, Queen, Beatles. Contaminare la forma canzone con altro, cioè avanguardia, musica classica, l’improvvisazione jazz. Contenitore di tre o quattro minuti, contenenti più elementi come in una micro suite, però orecchiabile. Mediare la non forma e la canzone con una struttura ben precisa. Conoscere le regole base per stravolgerle. 

La copertina di Jennifer Gentle

Hai affermato che nel nuovo disco non ci sono storie ma strutture aperte all’interpretazione. Forse è ciò che deve fare l’opera d’arte: provocare una reazione. Quanto è sbagliato e quanto è giusto dare spiegazioni?

La narrativa non ha mai fatto parte dei Jennifer. Innanzitutto, perché i testi non raccontano veramente qualcosa e credo che la musica parli più dei testi. Lo intendevo come un viaggio, un racconto sì, ma dall’inizio alla fine, ma non la singola canzone. La libera interpretazione, in questo caso, è quasi la sostanza di un sogno, che racconta molto ma sei tu a collegare il tutto insieme. Nel suo non dire qualcosa in particolare sta il suo essere definito per il lato onirico è molto a fuoco, il lato interpretabile. È un paradosso, ma non mi piace raccontare, perché non mi interessa quanto il non detto che può esserci in un racconto. È la mia indole. Cerco di mettere in musica delle immagini che mi passano per la testa, anche se non hanno un senso compiuto. Ma queste immagini, messe in sequenza formano un viaggio senza una trama specifica. Prendo la chitarra e stimolo la mia fantasia per creare qualcosa in grado di incuriosire, senza voler chiudere un concetto a tutti i costi.

Argento è un pezzo dedicato al Re dell’Horror Italiano. Anche la copertina, come quella di Valende e Midnight, ha per soggetto figure femminili, che danno un senso di mistero e di ambiguità. Che collegamento c’è tra l’immagine femminile e la tua musica?

Inizio col dire che lo stesso nome del progetto è femminile. La componente femminile, lo dico da uomo, è l’altro. Associo l’immaginario femminile al mistero, che mai si rivela del tutto. E perciò ho pensato, per l’ennesima volta, era rappresentativo per nostro lavoro discografico. Nello specifico, con la locandina di Inferno di Dario Argento, mi piaceva associare a questa parte superiore del teschio che però lasciava intravedere il volto femminile grazie alle labbra. Una maschera della mia infanzia, un po’ carnevalesca, un po’ inferno, un po’ misteriosa. Un fil rouge che collega a Valende e Midnight.

Tra i primi a firmare con la Sub Pop Record di Seattle. Cosa la differenzia da un’etichetta italiana?

Sub Pop è arrivata a noi in un periodo in cui ci autoproducevamo, con una nostra etichetta, il cui logo è sempre presente. Diffide paragonare una realtà così importante ad una italiana. Certo, La Tempesta, con tutte le diversità del caso, è un’etichetta che si impegna con forte cura per scegliere cosa pubblicare, e ha una bella energia. In Italia non esiste un corrispettivo della Sub Pop, anche solo per la sua storia e i nomi della sua scuderia. È stato per noi un salto, da autoprodotti nella nostra cameretta siamo stati catapultati in America, con tre tour e ci siamo confrontati con un altro tipo di realtà a soli 23 anni. 

La vostra musica non potrebbe mai essere scritta in italiano? Avrebbe funzionato all’estero?

Secondo me si, non nascondo che mi piacerebbe cimentarmi in questa direzione. Anche se non l’ho mai fatto, forse per non avere molti ascolti italiani. Potrebbe certo funzionare anche all’esterno, alla fine perché Modugno ha preso il suo spazio all’estero? I temi erano certo differenti, ma era bella la melodia e veniva ascoltata lo stesso, anche a prescindere dal fatto che non se ne comprendessero le parole. La lingua non crea limiti quando la musica è sempre la protagonista. 

Marco Fasolo

Vi ispirate molto agli anni ’70. Come rapportare quel periodo musicale a oggi? Soprattutto ora che si abusa del termine indie? 

Io lo dicevo anni fa, appena era sbocciata la questione dell’indie (più o meno fine anni ’90), che questa espressione sarebbe diventata un cliché. Come il rock: per esempio a Woodstock c’erano tanti generi, tanti musicisti che facevano le loro cose e piacevano in base ai gusti personali. Ora l’indie ha sostituito il mainstream: pensiamo all’it pop. Non ha nulla di rivoluzionario o sovversivo, rappresenta solo un genere e perfino un cliché. Oggi sarebbe realmente indie un ragazzo che registra un disco con la chitarra elettrica in un garage con un walkman. 

Progetti futuri?

Da musicista, mi sono sempre prefissato l’idea di non fermarmi. Scrivere sempre. Che sia il progetto dei Jennifer Gentle o la paternità di altri mille progetti va sempre bene. Anche da ospite, come per esempio con I Hate My Village. Ma vivere facendo musica.

(a cura di Fiorella Tarantino)

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