Rapina fiscale a danno del Sud? Mai esistita
Secondo Nitti, citato ancora da sudisti, revisionisti e neoborbonici, il Mezzogiorno avrebbe pagato molto e ottenuto poco. Fu confutato, senza possibilità di replica, da Corrado Gini….
S’intende per residuo fiscale la differenza fra ciò che una regione versa allo Stato sotto forma di tributi e quanto da esso ottiene in forma di servizi. Esso può essere positivo, se il territorio riceve più di quanto versi, oppure negativo, se accade l’opposto.
Proprio sulla base del residuo fiscale Francesco Saverio Nitti cercò di sostenere che il Sud sarebbe stato svantaggiato nella distribuzione delle risorse pubbliche nel primo quarantennio di storia del regno d’Italia. A suo parere, la contabilità fra quanto il Mezzogiorno aveva dato allo Stato centrale come proventi fiscali e quanto aveva invece ricevuto come risorse distribuite lo avrebbe sfavorito, ossia avrebbe avuto meno di quanto versato. La differenza sarebbe andata al Nord.[1]
Questa ipotesi era il cardine di un’altra ipotesi, sempre di Nitti, secondo cui la causa principale del dualismo economico tra Nord e Sud sarebbe stato proprio il drenaggio di risorse finanziarie dal Mezzogiorno al Settentrione.
Le affermazioni di Nitti ebbero dopo alcuni anni una totale ed argomentata confutazione da parte di Corrado Gini. Questi, un sociologo, economista e statistico, conosciuto in tutto il mondo per il suo coefficiente di Gini tutt’ora utilizzato per misurare le disuguaglianze socio-economiche, analizzò l’ipotesi di Nitti nel saggio L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni.[2]
Gini iniziava la sua argomentazione provando che, anche a voler dare per buone le cifre di Nitti, le conclusioni sarebbero state opposte a quelle dell’illustre meridionalista: «I dati, di cui si dispone, sono però sufficienti a dimostrare la completa mancanza di fondamento della opinione che le regioni settentrionali, in confronto dell’onere tributario che sostengono, ricevano dallo Stato una quantità di benefici assai superiore a quella delle altre regioni d’Italia. Gravemente responsabile della diffusione di questo pregiudizio è il Nitti; e la sua responsabilità è tanto più grave in quanto che anche le valutazioni da lui fornite, con metodi certamente erronei, del carico tributario sostenuto e dei pubblici servigi goduti dalle varie regioni, conducono a conclusioni diverse da quelle che egli enunciava.»[3]
I calcoli di Nitti erano riassunti da Gini con questa tabella:[4]
Regioni | Tasse allo Stato | Percentuale | Spese dello Stato | Percentuale |
Nord Centro Sud Sicilia Sardegn. | 494254 204942 233135 78028 5398 | 48,20% 20,00% 22,70% 7,60% 1,50% | 420616 209271 163230 70873 14525 | 47,90% 23,80% 18,60% 8,00% 1,70% |
Totale | 1025757 | 100% | 878515 | 100% |
Pertanto, anche se le cifre di Nitti fossero state esatte, si sarebbe dovuto concludere che le regioni sia del Nord, sia del Sud avrebbero ricevuto dallo Stato in investimenti meno di quanto versato in tasse, mentre invece sarebbero state favorite le regioni del Centro e le isole di Sardegna e Sicilia.[5] È sorprendente che Nitti abbia potuto asserire il contrario. Peggio ancora, «né il metodo seguito dal Nitti per determinare le contribuzioni, né quello seguito per determinare le spese sono soddisfacenti», scrive Gini.[6]
Questi espose con pazienza e minuzia perché Nitti avrebbe commesso errori di calcolo: l’imposta di ricchezza mobile per ritenuta e versamenti diretti, le tasse postali e telegrafiche, le tasse di fabbricazione, le tasse del pubblico insegnamento non erano ripartibili su base territoriale in modo esatto; i proventi dai monopoli del sale, del tabacco e del lotto andavano calcolati sulla base del ricavato netto e non lordo; era preferibile, per i dazi governativi, calcolare il loro prodotto e non i canoni di abbonamento.[7]
Egli commentò: «Le percentuali del carico tributario per le varie parti d’Italia, così correttamente calcolate, sono però molto simili a quelle date […], in base all’ammontare di tutte le imposte. Gravi invece sono gli inconvenienti, a cui in pratica conduce il metodo del Nitti per valutare i benefìzi che le singole regioni traggono dall’azione dello Stato».[8] Ad esempio, non si possono considerare come spese elargite dallo Stato centrale agli abitanti di alcune regioni gli interessi sui titoli di Stato, poiché si tratta semplicemente di quando dovuto ai possessori grazie all’acquisto dei titoli stessi, per il quale hanno versato denaro allo Stato. Allo stesso modo, non si possono inserire nel computo le pensioni spettanti a coloro che hanno lavorato per lo Stato, perché anche qui si ha banalmente il pagamento dello Stato per un servizio reso.[9]
Gini elabora quindi due serie statistiche sulle spese dello Stato ripartite su base territoriale, leggermente differenti a seconda delle diversità dei criteri di misura. Comparandole con le imposte versate allo Stato in precedenza indicate, il differenziale fra quanto una macroarea dava e riceveva era il seguente:[10]
Regioni | Spese dello Stato (due stime di Gini) | Tasse allo Stato | Differenziale |
Nord Centro Sud Sicilia Sardegna | 48% – 47,90% 20% – 19,60% 22,80% – 23,20% 7,60% – 7,70% 1,60% – 1,60% | 48,20% 20,00% 22,70% 7,60% 1,50% | -0,2 -0,3 0 -0,4 0,1 0,5 0 01 0,1 0,1 |
Le regioni settentrionali avevano quindi ricevuto dallo Stato meno di quanto avessero dato, mentre quelle centrali potevano o essere in pareggio oppure aver avuto di meno. All’opposto, sia il Meridione continentale, sia la Sardegna avevano certamente ottenuto di più di quanto avessero versato, mentre la Sicilia poteva essere in pareggio oppure avere un residuo fiscale positivo.
Il Gini scendeva anche più nel dettaglio per alcune voci di spesa, come quella particolarmente rilevante dei lavori pubblici.[11] I dati che riporta, distribuendoli fra Nord, Centro, Sud e Sardegna, ottengono i seguenti differenziali:
Regioni | Spese statali (lavori pubblici 1862-1898 | Percentuale imposte versate allo Stato | Differenziale |
Nord Centro Sud Sard. | 43,50% 20,70% 31,20% 4,60% | 48% 20% 30,40% 1,60% | -4,50% 0,70% 0,80% 3% |
La tabella evidenzia che le regioni settentrionali ricevettero per tutto il periodo 1862-1898 meno investimenti per lavori pubblici in percentuale di quanto avessero versate in tasse. Al contrario, tutte le altre macroaree ricevettero di più, specialmente la Sardegna.
Gini poteva
concludere che, dati statistici alla mano, il Mezzogiorno non aveva patito nel
periodo 1862-1897 una condizione di residuo fiscale negativo, anzi semmai era
avvenuto il contrario. Era stato il Nord ad essere svantaggiato nella
distribuzione delle risorse da parte dello Stato. Quanto sostenuto sul punto
suddetto ne L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni
non ricevette nessuna replica o contestazione, neppure da Nitti. Di fatto, chiuse la questione per quanto riguardava la
distribuzione regionale delle risorse dello Stato italiano nel suo primo
quarantennio di vita. A distanza di oltre un secolo, si ritrovano però persone
che riprendono i contenuti de Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-1897,
ignorando del tutto il successivo studio di Gini.
[1] F. S. Nitti, II Bilancio dello Stato dal 1S62 al 1896-97. Napoli, Società anonima cooperativa tipografica, 1900.
[2] C. Gini, L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni, Torino 1914.
[3] Gini, L’ammontare, cit, p. 268.
[4] Gini, L’ammontare, cit, p. 268.
[5] Ibidem, p. 269.
[6] Ibidem, p. 269.
[7] Ibidem, pp. 269-270.
[8] Ibidem, p. 273.
[9] Ibidem, pp. 273-275.
[10] Ibidem, p. 272.
[11] Ibidem, p. 276.
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L’aver abbandonato per anni da parte degli «accademici» la storia del XIX secolo alle scorrerie di una pubblicistica piagnona e sfrontata al tempo stesso, priva di qualsiasi fondamento scientifico ma abile a solleticare le emozioni più superficiali e aggressive, ha purtroppo avuto conseguenze devastanti difficili oggi da sradicare. A ciò si aggiunge l’insufficiente attenzione prestata a problemi di primaria importanza. Faccio un esempio.
La fascinazione esercitata sugli storici dalla «drôle de guerre» tra Regno delle Due Sicilie e governo britannico nella primavera 1840 causata dalla siciliana «questione degli zolfi» ha finito per focalizzarne l’attenzione quasi esclusivamente sugli aspetti politico-diplomatici e per indurli così a considerarla – come apparve alla pubblicistica dell’epoca – solo come una manifestazione di politica coloniale esercitata dalla «perfida Albione» contro un piccolo regno orgogliosamente deciso a difendere la propria dignità.
Sono invece rimasti in ombra gli aspetti propriamente economici della questione, che raccontano una storia ben diversa. Poiché una breve nota non è sufficiente a chiarire tutti i risvolti di questa intricata vicenda, inviterò i lettori – utilizzando anche alcuni dati inediti – a riflettere soltanto su tre cifre che furono a fondamento del contratto con il quale venne concesso da Ferdinando II nel luglio 1838 alla società francese Taix Aycard e C. il diritto esclusivo ad esportare lo zolfo siciliano.
La richiesta sul mercato internazionale – si disse – non superava le 600.000 cantara (un cantajo=kg 79,342) a fronte di una produzione che aveva toccato quota 900.000, causando una crisi di sovrapproduzione che aveva determinato un crollo dei prezzi ad un livello non più remunerativo, tanto che la ditta Verona e Messineo, secondo l’esempio che sarebbe poi rimasto paradigmatico offerto da un polemista agguerrito come Michele Solimene – «Sulla proposta del trattato di reciprocanza e di commercio tra l’Inghilterra la Francia col regno delle due Sicilie e sulla disputa de’ zolfi. Osservazioni di Michele Solimene», Napoli 1840, p. 87, – nel 1837 offriva sul mercato 10.000 cantara di zolfo al prezzo di tarì 9 ½ senza trovare acquirenti. Bisognava dunque trovare una soluzione – e il contratto con la Taix Aycard, che bloccava la produzione appunto a 600.000 cantara, fu quella escogitata – per garantire un giusto guadagno ai proprietari delle miniere e impedire che la ricchezza mineraria dell’isola venisse sfruttata a vantaggio di speculatori internazionali.
L’aspetto insolito e sospetto di questa trattativa fu che la stima della domanda e dell’offerta non fu elaborata dagli uffici governativi, bensì dalla società marsigliese e venne accolta senza alcuna verifica da parte dei ministri napoletani.
Si scoprì poi, attraverso le dichiarazioni dei proprietari delle miniere sul prodotto del 1838, che la capacità produttiva della sola «valle» di Caltanissetta superava ampiamente il milione di cantara, e dunque il danno derivante dalla mancata vendita prodotto dalla riduzione forzatamente imposta era ben superiore alle stime iniziali.
Inoltre se si esaminano i dati relativi all’esportazione del giallo metalloide dall’isola si osserva facilmente che dal 1836 essa era stata largamente superiore a 600.000 cantara annue, e dunque il mercato assorbiva quantità maggiori del minerale rispetto a quelle indicate dagli estensori della proposta.
Infine è facile rilevare che l’esempio addotto da Solimene era ben poco «esemplare», essendo largamente noto che non esisteva un unico prezzo dello zolfo ma una pluralità di prezzi determinata da molteplici fattori, a cominciare dalla qualità della merce offerta, dalla distanza della miniera dai porti d’imbarco, dal tempo stabilito per la consegna rispetto al momento dell’ordine e così via. Faccio tre esempi distribuiti nel tempo che credo valgano più di lunghe trattazioni. Il 20 gennaio 1837 – nello stesso anno indicato dall’esempio qui discusso – la ditta dei fratelli Vassallo, una delle maggiori del settore, vende a William Sanderson sulla piazza di Palermo 2000 cantara di zolfo al prezzo di tarì 12.10 al cantajo. Il primo febbraio 1838 gli stessi Vassallo vendono sulla piazza di Licata a un certo Bonifacio Cuomo 3000 «carichi» di zolfo da rotoli 125 ciascuno (un rotolo = kg. 0,793) a tarì 9.10, dunque addirittura ad un prezzo inferiore a quello indicato da Solimene. Ma il giorno seguente gli stessi Vassallo vendono a Giuseppe Malvica, sulla piazza di S. Cataldo, carichi 2700 di zolfo di «seconda» qualità di Licata – e qui i rotoli sono 123 a carico – a tarì 15 al cantajo: e dunque la situazione si presentava molto diversa da quella prospettata da Solimene e accolta acriticamente da parte della storiografia.
Malgrado il giudizio positivo che molti storici ne hanno dato, dunque, io ritengo che il contratto fosse una solenne impostura della quale perfino Ferdinando II dovette finire per rendersi conto, tanto che già nel gennaio 1840 ordinava ai suoi ministri di trovare la soluzione più idonea a rescinderlo. È paradossale che a dargli una mano sia poi intervenuto proprio Palmerston con l’ordine nell’aprile alla «Mediterranean Fleet» di operare un blocco navale contro il regno borbonico, consentendo così al re di Napoli di apparire come la vittima di una aggressione piuttosto che come l’involontario complice di una truffa ai danni dei siciliani, che finirono col pagare robusti indennizzi in ducati sonanti a tutti gli attori coinvolti nella ingarbugliata faccenda a causa di errori – per non dir peggio – commessi da altri.