Concorso Dsga, ultimo giro di boa al Senato
Arriva a Palazzo Madama il decreto scuole, in cui si tenta di far passare l’emendamento sul concorso riservato ai facenti funzioni rigettato dalla Camera a fine novembre. Pittoni, il presidente della Commissione cultura del Senato, ha ascoltato i rappresentanti degli assistenti amministrativi che hanno finora ricoperto le mansioni di Dsga senza alcun contraddittorio…
Dopo il no della camera, il problema dei Dsga (Direttori dei servizi generali e amministrativi) delle scuole arriva in Senato, dove si annuncia per la conversione del decreto scuole un dibattito simile a quello avvenuto a Montecitorio, tranne per i tempi, che saranno più veloci.
La sostanza della polemica è la stessa: il confronto tra le ragioni contrapposte di chi ha partecipato al concorso ordinario sulla sola base del titolo di studi (la laurea vecchio ordinamento o magistrale in Giurisprudenza, Economia e commercio, Scienze politiche, Scienze amministrative ed equipollenti) e di chi, invece, ha svolto le mansioni di Dsga in via provvisoria, pur in assenza del titolo d’accesso, cioè la laurea.
Questi ultimi, è doveroso precisare, non sono precari, come pure si è detto a più riprese, ma dipendenti delle amministrazioni scolastiche, in cui normalmente avrebbero svolto mansioni esecutive – per la precisione, di assistenti amministrativi – se l’emergenza non avesse costretto i dirigenti scolastici a conferirgli l’incarico in via straordinaria.
Purtroppo anche in questo caso, si è confermata la tendenza tutta italiana a trasformare le emergenze in regola: in assenza di concorsi per il reclutamento regolare, che avrebbero comunque dovuto prevedere i titoli specifici di laurea indicati poco sopra come requisito indispensabile, le scuole si sono dovute arrangiare con nomine annuali prorogate di anno in anno. E di questo passo, c’è chi è arrivato a venti anni di attività dirigenziale e ora rivendica la stabilizzazione in questo ruolo.
Senz’altro costoro hanno le loro ragioni morali e non hanno torto nel rivendicare l’esperienza acquisita sul campo. Ma queste ragioni cozzano contro la Costituzione, che prevede il concorso pubblico, che significa aperto a tutti e non riservato (o, peggio ancora, interno), e contro la normativa, che, a partire dai contratti collettivi, prevede il titolo della laurea come prerequisito ineliminabile.
Il 9 dicembre è andata in scena davanti alla Commissione cultura del Senato l’ennesima farsa all’italiana: due rappresentanti dei facenti funzioni hanno esposto, col consueto italiano non proprio a prova di bomba e senza contraddittorio, le ragioni della loro categoria.
Ragioni che si possono riassumere nel detto per cui la pratica vince la grammatica: loro, i facenti funzioni, hanno gestito le scuole per venti anni con molti rischi e senza garanzie; loro, i facenti funzioni, hanno accumulato esperienze importanti sul campo e perciò sarebbero dotati di professionalità che i semplici candidati non possono avere; senza di loro, i facenti funzioni, le scuole andranno a breve ko, perché ai vincitori dei concorsi ordinari non basterebbero dieci lauree (e relativi postlaurea, master e abilitazioni professionali) per mettere mano nei gineprai delle scuole odierne.
Forse c’è del vero. Tuttavia, le mansioni dirigenziali non sono attività artigiane, in cui l’esperienza manuale – in questo caso più difficile e davvero qualificante – risulta insostituibile.
Ma alle orecchie di Mario Pittoni (il senatore leghista che presiede la Commissione cultura col solo diploma di terza media) forse questi concetti non arrivano. Ed ecco perché ha ascoltato senza batter ciglio il centone di inesattezze propinato dai rappresentanti dei facenti funzioni e poi ha promesso un «appello accorato» al Presidente della Repubblica in loro favore.
Un segno dei tempi. Soprattutto, del degrado culturale dell’attuale classe politica, che in cambio di qualche voto è pronta a mettersi le istituzioni sotto i piedi.
Mattarella, che aveva messo un veto rigido sull’ipotesi del concorso riservato ai facenti funzioni anche se privi di laurea, non è il custode della Costituzione e della legalità (sulla base delle quali è invece richiesta) la laurea: è un semplice ostacolo politico, da aggirare nell’impossibilità di abbatterlo.
La verità è che quello per Dsga è forse il più sindacalizzato tra i concorsi banditi nell’ultimo biennio.
Infatti, risponde senz’altro a un’esigenza sindacale la riserva del 30% nel concorso ordinario ai facenti funzioni senza laurea; risponde senz’altro a un diktat sindacale l’ipotesi bocciata prima da Mattarella, poi dalla Commissione bilancio e infine dalla Camera, di indire un concorso riservato ai facenti funzioni; risponde senz’altro a pressioni sindacali, infine, risponde senz’altro a istanze sindacali il tentativo di riproporre in Senato ciò che la Camera ha bocciato.
Quanto tutto ciò abbia a che fare con esigenze di giustizia vera è da capire.
Ma tutto lascia pensare che il copione sia già scritto: dopo il no di Mattarella, che aveva sollevato eccezioni di costituzionalità non irrilevanti sul concorso riservato, e quello della Commissione bilancio, resterà in piedi l’ipotesi di un mini concorso speciale, riservato ai facenti funzioni in possesso di laurea analoga a quella richiesta ai candidati del concorso ordinario, tuttora in fase di svolgimento.
Già: mancano i tempi tecnici perché il Senato approvi l’emendamento rigettato dalla Camera e lo rigetti a quest’ultima.
E, soprattutto, mancano maggioranze alternative rispetto a quelle che a Montecitorio hanno già dato una risposta secca.
Nel frattempo, in questo tira e molla affogano letteralmente le scuole, che da settembre in avanti avranno carenze di personale e, soprattutto, restano stritolati i candidati al concorso ordinario, che rischiano di subire ritardi sia nelle correzioni delle prove scritte, effettuate a novembre, sia per le conseguenti convocazioni agli orali. La solita Italia, insomma…
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