Cetto c’è, un malcostume tutto da ridere. Senzadubbiamente
Albanese ne ha per tutti, nel suo nuovo film: dai populisti ai cultori della politica hi tech. E abbondano le bordate al revival borbonico, che vanno ben oltre la satira…
Cazzu, cazzu, è tornato. E solo i vastasi possono far finta di niente.
Cetto La Qualunque ripiomba sugli schermi col freschissimo Cetto c’è, senzadubbiamente e porta agli estremi la carica reazionaria insita nel suo personaggio.
È inutile raccontare la trama, ’ché quello che c’è da sapere del film è filtrato già attraverso il battage intelligente che ha preceduto, in rete e in tv, l’esordio in sala.
Diciamolo subito: questa versione 2.0 della maschera con cui Antonio Albanese ha sdoganato la calabresità come cifra comica, convince assai.
Infattamente’u pilu ci piaci sempre a Cetto (e a tantissima altra gente) e la verve trucida resta quella consueta, ma la narrazione acquista una marcia in più: perde l’immediatezza del vetriolo delle battute ma acquista il sentore sinistro di quello zolfo che si può estrarre solo a una certa profondità.
Ma è davvero necessario buttarla sull’intellettuale per raccontare Cetto? Sì, perché c’è ancora gente che dice e scrive, incoraggiata in questo dallo stesso Albanese, che Cetto è la metafora del malcostume politico, è l’emblema del politico ignorante e corrotto ecc…
Intendiamoci, è vero anche questo, ma non è il nocciolo (l’hard core, in questo caso) del personaggio.
Cetto, più semplicemente (e quindi infattamente) è la metafora di certe pulsioni arcaiche, rimosse altrove ma vivissime nel Sud. E più questo è profondo, più quelle sono vive.
Facciamo l’esempio che emerge più lampante dal film e che è stato finora passato in secondo piano dai volenterosi recensori di Cetto c’è: la monarchia nella sua variante neoborbonica. Cetto non si riscopre discendente dei Buffo di Calabria e quindi Borbone perché calabrese. Ma si riscopre monarchico perché meridionale (ricordiamoci che nel referendum del ’46 la monarchia aveva vinto al Sud) e perché solo al Meridione il mito monarchico può attecchire. È una dinamica interiore, che somiglia tanto a un riflesso condizionato.
Ancora: la pulsione autoritaria, insita nel sovranismo generico, che conosce comunque declinazioni più democratiche, diventa esplicita nella versione meridionale del sovranismo: l’uomo solo al comando si è affermato politicamente al Nord ma è stato amato al Sud.
«Chi vuole il sovranismo si prenda anche il sovrano», canta infattamente Cetto nel rap dei titoli di coda interpretati alla grande assieme a Gué Pequeno. Al Sud lo sanno (e lo vogliono, cazzu iu!), al Nord molto meno (ah, vastasi!). Ed ecco perché le recensioni mainstream su Cetto c’è hanno sbagliato clamorosamente il bersaglio. Personaggio in ritardo coi tempi, come ha scritto su Wired Gabriele Niola? Ma proprio no. Semmai il Cetto 2.0 è avanti fin troppo, come maschera e come metafora.
Il Cetto di senzadubbiamente si è rifugiato in Germania dopo la deludente esperienza da sindaco della sua Marina di Sopra? Certamente. E ha fatto fortuna grazie alla maggiore tolleranza teutonica verso le mafie che portano quattrini? Senzadubbiamente.
Infatti, i tedeschi hanno dovuto aspettare l’eccidio di Duisburg per capire cosa fosse davvero la ’ndrangheta. La macchietta (e quale macchietta più macchietta di Cetto biondo e crucco, che canta tarantelle in stile germanico?) fa ridere tutti, ma solo i calabresi la capiscono davvero: alzi la mano chi non si è meravigliato della fortuna di persone improbabili, partite per la Germania con le pezze al culo e tornate col macchinone? Ecco, finché qualche Dda non ne spiega i veri motivi, è un successo che desta meraviglia…
E veniamo ai Borbone. Probabilmente fischieranno le orecchie a molti, a partire dal professor Gennaro De Crescenzo, ma non si può negare che Albanese e il fido Piero Guerrera non abbiano scavato a fondo con la loro sceneggiatura.
Una risata vi seppellirà, promettevano i sessantottini. Albanese e Guerrera mantengono cinquant’anni dopo: il battibecco tra Cetto e Ferdinando (il sedicente discendente vero dei Borbone) allude quanto basta alle querelle tra don Carlos, il Borbone che sta a Napoli e che fa parte del ramo francese della dinastia, e don Pedro, cadetto del ramo spagnolo, che si disputano senza esclusione di colpi e di polemiche il titolo reale.
E ancoramente: lo slogan formidabile di Cetto (Viva la monarchia, ’ntu culu a Cavour) sembra fatto apposta per vellicare e irridere certe pulsioni che da almeno dieci anni attecchiscono al Sud.
Di più: la satira albanesiana tocca gli apici del grottesco nel tratteggiare gli aristocratici sfaccendati e nel rivelare che, in fin dei conti, certe nostalgie vanno avanti a furia di patacche. Ma qualcuno di voi ha mai lavorato una mezza giornata nella sua vita? Chiede Cetto, ormai calato nei panni del re, ai suoi commensali. Vi stimo, commenta alla risposta negativa di tutti.
Ancoramente, la scena micidiale in cui il re scopre di essere davvero farlocco e raggirato mentre l’improbabile referendum online imbastito dal figlio Melo dà la vittoria alla monarchia, ribadisce quanto dell’araldica sia una forma sofisticata di economia della truffa.
Fin qui l’aspetto nazionalmeridionale della pellicola.
Quello generalista non è da meno: le risate allo zolfo Albanese-style impestano di tutto e di più.
Ad esempio, il malessere dei cittadini che si trasforma in rifiuto della democrazia (La democrazia ha deluso, qui ci vuole la monarchia).
Inoltremente, non è affatto male il riferimento alla propaganda intesa come inganno (Gli italiani credono a tutte le fesserie, dice Cetto in una scena memorabile, noi siamo la minchiata giusta al momento giusto).
Di nuovo ancoramente, le botte alla politica hi tech incarnata da Melo, prima nei panni di sindaco giovane e progressista e poi di social media manager convertito alla causa paterna, sono gustosissime, segno che il grottesco in Albanese-style, non risparmia e non premia nessuno e che quindi neppuramente l’essere di sinistra basta a esorcizzare il fantasma di Cetto. Un modo come un altro per dire che di fronte alla politica finta e virtuale La Qualunque è sempre un dop di genuinità ruspante.
Ma il coup de foudre (o di pilu, fate voi), è la constatazione del declino della classe politica: voi diventate vassalli, dice Cetto a un gruppo di esponenti politici, vi prendete un feudo e fate quello che volete, tanto, da deputati a vassalli cchi cangia?
Certo, tolto dal palcoscenico e messo sul grande schermo, Cetto La Qualunque soffre un pochino perché le battute devastanti si annacquano un po’ nei tempi dilatati di una trama. Ma Cetto c’è regge comunque(mente) benissimo e, alla fine, desta un po’ di simpatia sul personaggio, che si riduce a cantare dopo essere stato spodestato: Da Borbone a barbone il passo è breve.
Ma, nella crisi attuale, potrebbe davvero essere antipatico un presunto re che promette: Vi nasconderò le brutte e vi selezionerò le passabili? Forse sì, ma solamente si ’u pilu un vi piaci.
Solo qualche critico radical chic (ah, Cainu!) può sottovalutare la portata corrosiva di questa pellicola e banalizzarne i sottotesti, che trasudano genialità e amaro realismo. Tutti gli altri vadano pure al cinema: anche se non coglieranno tante cose, una risata sonora la rimedieranno comunquemente.
Da vedere e da ascoltare, ma soprattuttamente da ridere:
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Dopo aver visto il primo film (Qualunquemente) come perdersi il secondo film? grande Albanese.