Giuseppe Filosa, una vita d’arte nella città antica
Il pittore cosentino, titolare di un piccolo atelier nel cuore del capoluogo calabrese, racconta la sua lunga carriera, iniziata nella Calabria del dopoguerra e sviluppatasi nell’Europa settentrionale fino al ritorno nella terra d’origine. Sempre con la testa e lo sguardo altrove ma col cuore radicato a Sud. Dall’amicizia con Guttuso ai rapporti con gli ultimi del suo mondo…
Chi passi nel centro storico di Cosenza non può fare a meno di notare una bottega d’arte, piccola ma visibilissima, nell’antico Corso Telesio, di fronte alla cattedrale.
Nomen omen: non a caso questo piccolo esercizio si chiama Il Duomo ed è esso stesso un pezzo di storia di questa parte di città.
Resiste lì a dispetto degli alti e bassi vissuti dalla parte antica del capoluogo calabrese, passata dalla condizione poco bella di zona off limits egemonizzata da gruppi di malavitosi a centro della movida e poi ripiombata nel declino, sebbene molto degrado di certo passato sia un ricordo.
Tanta resistenza, verrebbe da dire resilienza, è merito di Giuseppe Filosa, un artista di lunghissimo corso.
Cosentino doc, ma nativo di Montalto Uffugo, che oggi è un comune importante della grande area urbana che fa da corona al capoluogo, alla rispettabile età di ottantadue anni, tra l’altro portati benissimo, Filosa continua a gestire la sua bottega e quindi a produrre arte (e a insegnarla a chi vuole apprenderla) come se il tempo non fosse passato dalla seconda metà degli anni ’70, quando nacque l’artista rientrò dalla Scandinavia per creare a Cosenza la sua piccola bottega che sembra avere le stimmate (ci si perdoni l’iperbole) dell’immortalità: poco più di venti metri quadrati di disordine assoluto, le pareti tappezzate di quadri, le sculture distribuite alla rinfusa, i pennelli e i colori stipati in lattine di pomodoro vuote ed extravecchie.
Se non è arte questa…
Iniziamo dal ritorno, che è un po’ la metafora del calabrese. Filosa rientra a Cosenza dopo esperienze importanti in Germania e in Svezia. Cosa trova?
Trovai il centro storico in fase di spopolamento. Lo avevo lasciato, agli inizi degli anni ’60, che era ancora vitale. Sono innamorato da sempre di questa zona, antica e a suo modo nobile, a dispetto della povertà e del suo declino, che sembra perenne. Anche per questo decisi di radicarmi qui.
Anche i locali della bottega sono storici.
Sì. Prima c’era un negozio di alimentari che era durato a lungo ma aveva chiuso i battenti da poco. Mi aiutò a trovarlo Pino Iacino [in realtà Battista Iacino, che fu sindaco in quota Psi dal 1975 al 1980, Ndr]. Lo rilevai ed eccomi ancora qui.
Ma l’avventura di Filosa inizia molto prima. Parliamo della Cosenza del dopoguerra, una città piccola in una regione povera, che aveva iniziato un forte sviluppo urbano ma ancora stentava a riprendersi dalle ferite della guerra. Quest’inizio non fu solitario…
Non ero da solo. Eravamo tre amici innamorati pazzi dell’arte: io, Mario Mauro e Antonio Presta. Passavamo tutto il tempo a dipingere o a cercare stimoli per la nostra arte.
Con quali risultati?
L’ambiente ci forniva tantissimi stimoli, ma le possibilità di farci notare non erano tantissime. Ricordo che all’epoca, forse anche sotto l’influsso della poetica neorealistica introdotta dal cinema, ritraevo i contadini. Io mi sono considerato sempre un pittore della realtà: infatti amavo dipingere la vita reale e le persone che la vivevano intensamente.
Per voi fu importante l’incontro con Dante Volpintesta.
Io direi che fu un incontro fondamentale. Volpintesta, corrispondente de l’Unità, era un giornalista coltissimo, di grande sensibilità intellettuale e dotato di una rete di contatti importante. Fondò il Gruppo Arte Cosenza, di cui facevamo parte Mauro, Presta e io, e ci mise a disposizione la sua mansarda per dipingere.
Ma c’erano sbocchi economici?
Molto pochi: Cosenza era una città viva, ma non ricca e quindi non in grado di assicurare un mercato per degli artisti, soprattutto giovani come noi. Ma riuscì a farci fare mostre, in città e a Roma. E ci fece conoscere personalità importantissime: penso al professor Torchiaro di Napoli e poi a Carlo Levi. Furono anni bellissimi in cui riuscii ad acquisire una certa maturità artistica, grazie anche alla Scuola d’Arte.
Però le esigenze economiche presero il sopravvento e imposero uno sblocco classico per tantissimi meridionali: l’emigrazione.
Nel mio caso la scelta di migrare fu imposta senz’altro da necessità economiche, Ma direi anche dal bisogno di trovare nuovi stimoli. Andai in Germania con in tasca l’indirizzo di una persona che mi ospitò e mi aiutò a trovare lavoro.
E a quel punto sorsero i primi problemi.
Non erano dovuti a pregiudizi o a forme di razzismo, che tra l’altro non ho mai percepito. Fu piuttosto una questione di mentalità: io volevo lavorare e dipingere. Ma non avrei mai potuto conciliare queste due attività se fossi stato in fabbrica a tempo pieno, come prevedevano i contratti di lavoro, che gli industriali tedeschi praticavano, appunto, da tali: con precisione teutonica. Riconoscevano tutti i diritti, ma pretendevano un’osservanza a dir poco pignola dei doveri, soprattutto degli orari di lavoro. Ricordo che ero a Rudersberg, un paese nel distretto di Stoccarda. Provai a chiedere ai dirigenti della fabbrica in cui lavoravo una cosa all’epoca impensabile, ma che oggi si pratica su scala larghissima: il part time. Mi dissero di no.
E come riuscì a superare l’ostacolo?
Regalai loro un quadro in cui avevo ritratto la fabbrica. Ne furono impressionati e mi concessero il part time. Devo dire che, nel mio caso, l’arte fu più forte di qualsiasi sindacato.
E come andò in Germania?
Vi rimasi per due anni. Riuscii a collaborare con vari colleghi e a esporre.
Giusto una curiosità: i rapporti tra i migranti, che all’epoca eravamo soprattutto noi meridionali, e i tedeschi com’erano?
Di grande correttezze e a volte di cordialità. La Germania Ovest viveva un boom economico eccezionale, dovuto in buona parte all’apporto dei migranti. Noi italiani andavamo d’accordo non solo con i padroni di casa, ma anche con gli altri stranieri, in particolare i greci, che forse erano i più simili a noi per abitudini e stili di vita.
Cosa ritrasse in Germania?
In coerenza con i miei ideali realisti, la vita del posto: soprattutto le fabbriche.
Un esempio di arte industrialista?
Non saprei. Volevo solo raccontare la realtà di cui ero parte in quel momento.
Poi la scelta di spingersi oltre, più a nord.
Volevo ritrarre i pastori lapponi e le loro renne. Una follia della giovinezza? Me lo chiedo ancora e mi rispondo: no, piuttosto, la stessa curiosità verso la vita reale che mi aveva spinto prima a ritrarre i contadini calabresi e poi le fabbriche tedesche.
Come fu l’esperienza in Svezia?
All’inizio più difficile: l’approccio con la lingua, a differenza che in Germania, fu decisamente problematico, anche perché allora in Scandinavia non c’era una forte comunità di migranti che poteva fare da cuscinetto, quindi il rapporto immediato con le persone del luogo era obbligatorio.
Ma andò bene.
Altroché: conobbi lì mia moglie e comunque le gallerie di Stoccolma mi offrivano davvero tante opportunità: il mercato era piccolo, ma era comunque un mercato, colto e selettivo, grazie anche all’intelligenza della classe politica che incentivava l’arte il più possibile.
E riuscì anche a ritrarre i lapponi.
Per farlo mi trasferii in un paesino al confine con la Finlandia. Ci restai un mese e mi ammalai dal freddo. Però, dal punto di vista artistico e umano valse davvero la pena.
Infine il ritorno in Italia.
In Svezia mi ero ambientato e stavo benissimo. Ma avevo bisogno di altro, anche perché il vero mercato dell’arte coi relativi stimoli era tra Italia e Francia. Mi stabilii nel centro storico di Cosenza.
Che all’epoca stava diventando una zona off limits. Lei ebbe problemi coi malavitosi del posto, che di lì a poco avrebbero scatenato una guerra di mafia piuttosto feroce?
No, a dire il vero. Trovai senz’altro la zona impoverita e spopolata, perché la vita economica e la maggior parte della popolazione si erano spostate nella parte nuova della città. Ma nessuno venne a infastidirmi. Anzi, qualcuno di loro comprò qualche mio quadro.
Che impatto ebbe il ritorno in Calabria con l’approccio all’arte?
Fu un impatto enorme. Iniziai a dipingere su materiali poveri: vecchie tegole, tavole di legno oppure pezzi di cartone. Volevo raccontare questa zona povera ma ricca ancora di vita e di esperienza fin nel dettaglio. Frequentavo molto Roma e studiai lì scultura all’Accademia delle Belle Arti. Sviluppai, grazie all’influenza della scultura, uno stile particolare nell’uso dei pastelli a olio, con i quali realizzai delle opere simili a graffiti. In questo, debbo dire, fui molto incoraggiato da Renato Guttuso che ho avuto l’immenso piacere e onore di frequentare.
Ci furono anche eventi importanti: le mostre all’estero e in molte parti d’Italia e poi l’esperienza del Graffio, che caratterizzò gli anni ’90.
Il Graffio fu un centro artistico e intellettuale molto vissuto e frequentato, che ridiede slancio alla vita della parte antica della città. Fu un modo per recuperare spazi e dare stimoli agli abitanti del luogo ma anche un luogo di aggregazione per artisti e persone di cultura.
Oggi cosa resta di tutto questo?
Aver avuto la possibilità di girare il mondo e di restituire parte della mia esperienza alla mia terra, alla mia città. Aver avuto la possibilità di vivere di arte e per l’arte e aver dato stimoli alle persone che mi circondavano e anche a chi non mi conosceva. A differenza di altri, sono riuscito a tornare e riaffermarmi. Ma anche a vivere Cosenza come un punto di partenza per creare una rete di rapporti che dura tuttora.
Non è da tutti.
Mi reputo fortunato, infatti.
(a cura di Saverio Paletta)
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Ciao Saverio.
Questo articolo su mio padre è meraviglioso!
Grazie infinite.
Isabell Filosa
Ciao Cara, e grazie a te!