Da vilain ad antieroe: Joker rinasce sul grande schermo
Metacinema, contronarrazione piena di valori sociali e Gotham City che da vittima diventa carnefice e metafora del declino americano. Sono i tre elementi rivoluzionari che spiegano il successone del film di Phillips, un prequel tragico e problematico che getta ombre inquietanti su Batman
Finalmente una genesi chiara e problematica per un personaggio dal passato confuso.
In poche parole, è la mission di Joker, uscito lo scorso mese sul grande schermo. Lo ha diretto Todd Phillips, è la sua pellicola riceve il Leone d’oro al miglior film nella Settantaseiesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Ma raccontare un prequel e mettere ordine nelle vicende di uno dei cattivi più caratteristici (e simpatici) non è l’unico obiettivo.
C’è molto di più dietro il racconto di Phillips, che arricchisce la saga di Batman. Proprio no: Joker non è il solito film comic, ma una pellicola che fonde tre tracce narrative e (meta)cinematografiche.
La prima rinvia al mondo di Gotham City, la seconda al tema sociale (l’emarginazione degli ultimi) e la terza al mondo del cinema attraverso gli omaggi a Martin Scorsese.
Joker finora è stato descritto, su pellicola o su carta più o meno patinata, come un personaggio tra il buffone e il burlone. Astuto e brillante, ma soprattutto sadico, perfido, crudele ed egocentrico. A volte un innocuo ladro, altre un folle grottesco.
Ma poco o nulla si sapeva sul perché Artur Fleck è diventato Joker. Nulla sui suoi attacchi incontrollabili di risa nei momenti più inopportuni. Nulla sull’identità dei suoi genitori. Nulla sulle sue aspirazioni e sul lavoro che era costretto a svolgere. Nulla sul disagio che ha ne ha provocato la metamorfosi da pagliaccio a criminale.
A queste lacune sopperisce lo stesso vilain che si racconta attraverso uno sfogo memorabile con (e contro) la madre:
«Tu mi hai detto sempre che la mia risata era un disturbo, che c’era qualcosa che non andava in me. Non è così. Questo è il vero me. Happy. Non sono stato felice mai, neanche un minuto della mia vita del cazzo. Sai cos’è buffo? Cosa mi fa veramente ridere? Ho sempre pensato che la mia vita fosse una tragedia, ma adesso mi rendo conto che è una cazzo di commedia».
Nel film c’è, ovviamente, la sua nemesi: Bruce Wayne, non ancora Batman. E ci sono anche i genitori: Thomas e Martha Wayne. Ed emerge in chiave inedita l’episodio tragico da cui nasce l’uomo pipistrello ideato da Bob Kane e Bill Finger.
Ma la genesi del cattivo, l’ennesima nel microcosmo di Batman, stavolta ha sollevato un polverone. Joker non è cattivo per rivalsa individuale, né per voglia di ascesa sociale. Non è uno sfigato che cerca scorciatoie: è un oppresso in cui si identificano tanti altri come lui, perché la rabbia e la frustrazione che derivano dalla marginalità generano emulazione. E forse non è un caso che molti cinema americani in cui è stato proiettato Joker abbiano vietato l’ingresso a maschere e armi giocattolo.
Già, forse l’America ha tributato un grande successo al film di Phillips perché somiglia un po’ troppo alla Gotham City povera, decadente e sinistra raccontata nei fotogrammi della pellicola
La Gotham City di Joker è il campione di una situazione più ampia: la politica, in questo caso rappresentata da Thomas Wayne, abbandona i più bisognosi. L’assistenza sociale è scadente, e non è un caso che Fleck accusi l’assistente sociale di non ascoltarlo. Ma questo è proprio il minimo. Ci sono i bulli che lo pestano mentre lavora come clown e quelli che incontra in metro, c’è il datore di lavoro che non gli crede. E c’è la madre che gli mente sulle sue origini. Perfino il presentatore di un talk show, Murray Franklin (un superbo De Niro) lo prende in giro per la sua esibizione in un cabaret. La società diventa carnefice e non più vittima, perché scatena la rivalsa. Anche il parallelo con Bruce Wayne è lampante ed inquieta, perché di fronte a questo provocatorio capovolgimento narrativo, il giustiziere non è altro che un figlio di papà. Infine ci sono gli omaggi fatti a Martin Scorsese. Innanzitutto la somiglianza tra Fleck e l’indimenticabile Travis Bickle di Taxi driver. E poi i sobborghi di Gotham somigliano sin troppo a quelli di Gangs of New York. Infine, il Murray Franklin, impersonato da Robert De Niro, richiama il personaggio di Re per una notte interpretato da lui stesso. Scorsese, val la pena di aggiungere, è stato il primo produttore di Jocker.
Todd Phillips è riuscito a dare un forte impatto con il suo Joker. Senza alcuna banalità, senza ricadere nel racconto scontato del primo capitolo della storia di un personaggio cardine della saga di Batman. Riesce, infatti, ad andare oltre: parla della società degli anni ’80, presentati come l’origine dei mali contemporanei. Gratta via la patina e i lustrini di una narrazione spesso bidimensionale, passata tal quale dai fumetti al cinema (e viceversa).
E in Joker scopriamo che il Cavaliere è più nero di quanto non sembri e che la cattiveria, il più delle volte, è l’unica alternativa alla sfiga. Così va la vita. E pure il cinema.
Da vedere:
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