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Rita Vitali Rosati racconta le sue “Passiflore”

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Intervista all’artista milanese autrice di una mostra significativa allestita nel Museo Osvaldo Licini, nel cuore delle Marche

Rita Vitali Rosati, di origine milanese, è un’artista suggestiva e provocatrice che lascia il segno, a livello creativo e personale. Abbiamo fatto il punto con lei sul suo modo di essere e sulle sue esperienze recenti che l’hanno vista impegnata in diverse location fra Roma e Milano. L’artista racconta la sua mostra al Museo Osvaldo Licini, a Monte Vidon Corrado, nel cuore della provincia marchigiana. Il Museo è molto caratteristico, una vera perla, un esempio da imitare per organizzazione e qualità culturale. Parlare con la Vitali Rosati stimola a riflettere sullo stato dell’arte attuale e sulla condizione socio-antropoligica dell’essere umano, molto spesso, annichilito e perso nei molteplici meandri del web.

Rita Vitali Rosati (a sinistra) dialoga durante la mostra con le sue “Passiflore” alle spalle

Un’artista come te, straordinariamente ironica, perché sceglie un tema suggestivo e provocatorio come la Passiflora?

Sono stata letteralmente attraversata da un’onda fulminea a volte aggressiva, tranquillamente ridondante. Nessun tema è provocatorio e suggestivo se non nel modo, e solo in quello, in cui l’autore imprime una forza evocativa.  Perché spiegare o spiegarsi che forse il mistero delle cose a volte si rivela, ma il più delle volte sceglie di nascondersi? Forse sono stata scelta dall’ispirazione e dal soggetto più che averlo scelto.

È commovente l’eleganza della collezione Passiflora: questi lavori diventano un libro che narra per immagini i sentimenti a volte contrastanti di una società in delirio. Parlaci del tuo universo, di quei momenti in cui, chiusa nel tuo studio, hai elaborato questa tematica.

«Ciò che conta è dare un nome alle ombre», come scriveva Antonin Artaud: spiare il mondo da un io chiuso al per percepirne, oltre il rumore, soprattutto gli indizi più impalpabili. Dare una luce alle ombre nel silenzio di un universo che ci piomba addosso è come annunciare un’alba abissale: cambia lo scenario che si popola di battiti, di accensioni, di dissolvenze di immagini quasi in fuga. Queste immagini si condensano, si ricompattano e tu ti trovi al centro di un miracolo. Infatti, l’ho scritto più di una volta: Borges ricordava che Art happens, ovvero l’arte accade, semplicemente da sé, come una luminescenza.

La Vitali Rosati in posa all’ingresso della sua esposizione

Naturalmente la tua esperienza ti porta ad essere una performer di vero talento e come regista dei tuoi lavori sei altrettanto brava. Nella tua arte è percepibile una forte vanità, quasi nell’accezione latina di vanitas. Come l’accoglie il pubblico?

Nel linguaggio comune vanitas, così come è tradotto dal latino evoca in modo simbolico la caducità della vita. Il riferimento allude soprattutto all’inarrestabile deriva verso la morte non disgiunto dall’idea di un decadimento fisico che svilisce ogni valore estetico. Nel linguaggio di tutti i giorni, la parola vanità è associata a una costellazione di significati che richiamano altri concetti: ambizione, presunzione, superbia, narcisismo, egocentrismo. Questi accenti sottolineano in modo marcato la cifra caratteristica dell’artista. Quest’atteggiamento spinge l’artista a una continua messa in scena delle sue opere, attraverso la quale si mette in mostra egli stesso, per dare risalto a quel quid indefinibile che gli permette di galvanizzare la scena visiva con la sua sola presenza e di indurre il pubblico a esprimere una reazione.

In quest’ottica di forze, in questa sfida, la vanitas perde ogni connotazione negativa, (che è tipica del concetto gemello di vanità, «l’infinita vanità del tutto», per dirla con Leopardi che così traduceva il tradizionale «vanitas vanitatum et omnia vanitas»).  

Posso dire quindi che l’artista vive il concetto di vanitas in termini di dualità: da una parte non si fa sfuggire anzi si fa totalmente investire dalla sua forza propositiva con cui il suo ego viene adornato. In secondo luogo ha ben presente quanto dell’umano abbia un aspetto caduco.

L’esperienza della tua mostra personale nel Museo di Osvaldo Licini ti sta coinvolgendo emotivamente? Ne sei rimasta contenta? Il pubblico si è sentito partecipe?

Desidero ringraziare da queste pagine la presidente del Centro studi Osvaldo Licini di Monte Vidon Corrado, Daniela Simoni, insieme al professore Nunzio Giustozzi, curatore e critico della mostra, per avermi dato l’occasione di lasciare una testimonianza della mia arte in un posto prestigioso come il Museo Osvaldo Licini. Uno spazio ricco di irruenza artistica.

Una foto di gruppo nel Museo Licini

I messaggi delle tue opere sono forti e densi di pathos. Quanto c’è in te di ricerca spirituale e mitologica?

Ho un carattere che si modula su accensioni opposte: dolcissima e violentissima, asseriva mia madre e questo suo monito ce l’ho cucito addosso. In questo andirivieni di mutazioni emotive che tutte i tentativi di classificazione nascondono il pericolo di dogmatizzare l’approccio all’arte. Detto questo non rinnego affatto che l’arte sia la condivisione. Una condivisione problematica che, tuttavia a volte genera una liaison tra la mia indagine spirituale e l’attenzione del pubblico. I miei riferimenti più immediati provengono da una ricerca che trae spunto dalla condizione umana, persino dalle sue mutilazioni. Il mio vissuto è lo specchio della mia anima a volte negata, inseguita e a volte rifiutata, costretta dalle contraddizioni e dalle costrizioni apparentemente anonime e classificabili nella sfera dello spirituale. Il mondo sembra non abbia senso: cerchiamo connessioni perché siamo noi che gliele diamo, per necessità.

(a cura di Carmelita Brunetti)

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