Black Sabbath e non solo, la nostalgia oscura degli High Reeper
Doom e stoner a piene mani in Higher Reeper, il secondo album della band statunitense, che riesuma con classe le atmosfere più dark degli anni ’70
Alla Mietitrice non basta essere Grande. Ma vuole diventar Più Grande.
È solo un gioco di parole per spiegare che gli High Reeper (appunto, Grande Mietitrice), sono tornati da poco con Higher Reeper, uscito per la piccola e combattiva Heavy Psych Sounds Records, a poco più di un anno dell’esordio omonimo.
La musica è in linea con il nome: il quintetto della Pennsylvania propone uno stoner-doom pesantemente debitore degli anni ’70. Senz’altro dei Black Sabbath prima maniera, ma anche dei Saint Vitus e dei Trouble.
Il risultato è un muro di suono sulfureo e massiccio, costruito con efficacia dalle chitarre pastose di Andrew Price e Pat Daly, che tessono riff granitici e maligni sulla sezione ritmica squadrata del bassista Shane Trimble e del batterista Justin Di Pinto. Lo sfondo sonoro lugubre ideale per la voce stralunata di Zach Thomas, che si diverte a evocare l’Ozzy Osbourne prima maniera in maniera grottesca e inquietante.
Senz’altro una ricetta gustosa per gli appassionati e i nostalgici del decennio d’oro del rock e dei padri del metal arricchita di quelle citazioni acide che non guastano mai in un contesto così.
Tutti questi elementi sono presenti alla grande nell’open track Eternal Leviathan, che si regge sul riff pesante delle chitarre e sui tempi cadenzati della sezione ritmica, sui quali Trimble si diverte a ricamare dei giri di basso degni del vecchio Geezer Butler.
E, su tutti, Thomas, che arriva quasi a clonare la voce di Ozzy.
Ancora più sabbathiana la seguente Buried Alive, che sembra presa di peso da Paranoid. In questo caso spiccano i cambi di tempo e il maggiore respiro dinamico su cui il cantante ancora una volta rifà il verso al Madman, ma con più potenza.
Il riffone che apre Bring The Dead ricorda un po’ la mitica Children Of The Grave, ma il quintetto americano scansa le aperture epiche del classico dei Sabbath in favore di soluzioni più claustrofobiche e acide.
Con la lenta e suggestiva Apocalypse Himn gli High Reeper aggiornano nientemeno che Planet Caravan, di cui ripropongono le atmosfere notturne cariche di riverberi e i riferimenti psichedelici con una precisione filologica davvero rara.
Un giro di basso distorto introduce il riff plumbeo di Foggy Drag, un pezzone doom che riprende e aggiorna le migliori trovate macabre del leggendario Black Sabbath.
Ancora Sabbath, ma più cattivi nella supermacabra Obsidian Peaks che si regge su riff degni del Tony Iommi prima maniera.
Il tempo in levare di Plague Hag cita in maniera sfacciata un altro classico come Dance Of St. Vitus, ma anche in questo caso la riproposizione di formule vecchie è resa in maniera credibile.
Chiude la lenta e cadenzata Barbarian, che evoca in maniera ultradoom e senza nessuna concessione all’epica le atmosfere dei racconti di Howard.
Gli High Reeper hanno fatto centro, con la riesumazione a dir poco impeccabile delle atmosfere e dei temi seminali di una parte importante della cultura rock.
Un’operazione museale ben riuscita, che tuttavia mantiene il fascino dei musei ben curati: non c’è un filo di polvere sui suoni antichi di Higher Reeper e il songwriting orgogliosamente vintage dà l’idea di una macchina del tempo congegnata bene e funzionante meglio.
L’ideale per riscoprire i suoni che hanno stregato più di una generazione e, soprattutto, per capire come mai siano riusciti a far presa così tanto, visto che funzionano anche adesso.
E gli High Reeper lo dimostrano.
Da ascoltare:
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