Il porno 2.0 e la sex revolution che non c’è. Le sciocchezze leziose di Barbara Costa
A dispetto delle polemiche e dei dibattiti che ne accompagnarono l’uscita circa un anno fa, non è rimasto nulla di Pornage, il libello finto trasgressivo della giornalista romana. Ma tranquilli: è solo un’ammucchiata di luoghi comuni e sbirciate sul web. Non ci siamo persi niente
Un po’ di fuochi d’artificio estivi e poi il silenzio.
Cominciamo con una domanda banale, circolata leziosamente nel web oltre un anno fa, quando il Saggiatore licenziò Pornage. Viaggio nei segreti e nelle ossessioni del sesso contemporaneo: chi è Barbara Costa, l’autrice di questo licenzioso (e lezioso) volumetto?
Natalia Aspesi ha lanciato un’ipotesi maligna: la giornalista misteriosa, che scrive su Dagospia e ha riletto la Lolita di Nabokov su pangea.news, si dichiara bisessuale e consumatrice abituale di cose spinte, sarebbe «un uomo non più giovane e appassionato fruitore di porno, o meglio ancora un gruppo di buontemponi».
Giampiero Mughini, prefatore dotto e pungente del libello, ha rilanciato: la Costa sarebbe una donna, eccome, tra l’altro conoscitrice profonda della cultura americana degli anni ’60 («può scrivere agevolmente di John F. Kennedy o di John McNamara»).
Invece il titolare di pangea.news non conferma né smentisce.
E il giallo si rivela per quel che è: il classico gioco di specchi per promuovere un libro, a dispetto anche di certi titoli anticasta (in questo caso letteraria), come quello de L’Inkiesta: Barbara Costa esiste ma il nepotistico mondo della cultura non l’accetta.
A distanza di oltre un anno dalla sua uscita, di Pornage non è rimasto quasi nulla, nonostante lo schieramento di mezzi editoriali e le baruffe chiozzotte delle Grandi Firme. Sembra quasi che il libro abbia seguito il destino del suo oggetto, che non è il porno, ma il porno 2.0: la merceologia pura.
Le merci, soprattutto quelle pure (e il sesso decontestualizzato è merce purissima) hanno un ciclo ben preciso, che finisce nella discarica, in questo caso delle emozioni e della memoria. E l’eternità mediatica assicurata dai circuiti web è solo un pallido simulacro di economia circolare basata sul riciclo, che invece i ragazzi degli anni ’70 e ’80 praticavano alla grande con riviste e videocassette.
Nel porno 2.0, che produce immagini, emozioni e titillamenti di tutti i tipi con ritmi esponenziali, tutto è merce: senz’altro il corpo, ma anche l’anima e i vizi che ne sono il sale (e, va da sé, il peperoncino).
E a nulla vale riprendere le vecchie giustificazioni ideologiche con cui i pionieri del porno lanciavano i propri lucrosi (e a modo loro eroici) business, come fa la Costa in apertura del suo libro, siano essi il gaudente Hugh Hefner, il zozzo ma appassionato Larry Flint o il nostro Rocco Siffredi, che ha trascinato di peso le porcherie nel mainstream e ha reso formato famiglia certo superomismo alla John Holmes.
Anche gli intellettualismi della rivista Pornceptual lasciano davvero il tempo che trovano, visto che i rapporti interrazziali non se li sono inventati loro, ma sono ritratti anche in affreschi antichissimi e bianchi e neri posano nudi assieme almeno dagli anni ’60, anche per motivi ideologici.
Alla carrellata di pornocrati della Costa manca un altro italiano importante: Saro Balsamo, l’editore che portò l’hard nel Belpaese quando le manette scattavano con facilità per le pubblicazioni oscene (chi di recente si è stracciato le vesti per la vicenda Sallusti dovrebbe ricordare i tanti giornalisti pornografi finiti in galera nella prima metà dei’70). Brillante e prosaico, Balsamo resta un esempio da manuale della capacità del porno di trasformare l’ideologia in merce e usare certe pulsioni, allora sacrosante, come grimaldello per una delle più bizzarre e riuscite avventure editoriali della nostra storia recente e fu protagonista di una vicenda imprenditoriale e umana capace di smontare ogni retorica libertaria.
«Non è il porno a opprimere le persone, ma la società, quindi noi stessi quando ci lasciamo devastare da pregiudizi e immotivate paure. Per questo la pornografia piò essere la giusta arma di protesta e mezzo di cambiamento sociale: scuote le coscienze, non lascia indifferenti, stimola, fa pensare», scrive in maniera quasi scontata Barbara Costa.
Ma siamo davvero sicuri che sia così? L’unica cosa che si può concedere, nell’era ultramassificata e allo stesso tempo ultraliquida del web 2.0, è che le pulsioni erotiche, individuali e collettive, possono diventare più dirompenti che in passato e che la pornografia mantiene la sua capacità di canalizzarli.
Non è la pornografia a sfidare la censura degli ayatollah in Iran: sono le pulsioni, fisiche e mentali, di cui il porno diventa quasi una bandiera, grazie alla sua semplicità e alla sua estremizzazione per immagini.
Ma le industrie esistono per vendere più merci possibili a un pubblico più vasto possibile, che non è fatto solo di persone costrette a vivere sotto regimi liberticidi. Anzi, queste sono una minoranza, visto che spesso i regimi in questione controllano la rete in maniera più che occhiuta. E poi: siamo davvero sicuri che il liberticidio consista solo nella censura di ciò che ha a che fare col sesso? Non ci pare che il regime cinese, pronto a censurare davvero tutto, sia di manica così stretta col porno e limiti ai suoi cittadini la possibilità di accedervi.
E ciò può far capire quanto poco libertario possa essere il porno 2.0, visto che l’aspetto merceologico può benissimo diventare narcotico. Il porno prende il posto della religione nel postmarxismo asiatico e diventa l’oppio con cui gli ultimi regimi comunisti, tali sempre più solo nel nome e in certi metodi, sedano i propri popoli.
Perché ci sono altre pulsioni (quella di pensare, ad esempio), che possono venir prima del fabbisogno sessuale.
Ed ecco che la carrellata di parafilie descritta con minuzia in Pornage si rivela per quella che è: non una dissertazione enciclopedica ma l’esposizione in ordinatissimi e coloratissimi scaffali di un enorme sexy shop.
Il porno è sempre stato un’industria, fosse quella dei papiri su cui erano scritti i versi di Ovidio e Giovenale, fosse quella delle stampe semiclandestine e costosissime che giravano nell’aristocrazia europea (e non solo), dall’età barocca a salire.
Il porno, appannaggio in origine di pochi, di solito ricchi e colti, si è democratizzato ed è arrivato a tutti non attraverso un processo politico, ma con la diffusione commerciale. E, si sa, l’eccesso di offerta abbassa i prezzi fino ad azzerarli.
Già: il porno non è un’arma dell’emancipazione sessuale, anche se si lega ad essa. Né è il principale prodotto di consumo. E ciò vale anche per i movimenti gay e Lgbt: a ogni battaglia la sua merce.
Si nasce sulle barricate e si invecchia in salotto, perché ci si ammorbidisce con l’età e, magari si ha qualche quattrino in più.
E i pornofili hanno seguito proprio questa traiettoria: dalle riviste comprate di nascosto e ben nascoste, sono arrivati alla libera fruizione della rete. Ovvio, allora, che ogni trasgressione diventa asettica e l’eccesso produca l’anestesia prima e l’amnesia poi.
Al punto che le starlet del genere nascono e spariscono in una manciata di mesi, mica come Moana o Cicciolina che ancor oggi stimolano l’immaginario collettivo.
Nessuna meraviglia, allora, che un libro come Pornage, un’occasione sprecata per raccontare la pornografia di massa, sia finito nel dimenticatoio nel giro di pochi mesi, perché elogiare le merci significa mercificarsi. A dispetto di tanti leziosi intellettualismi e di padrini illustri come Mughini.
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È Gianpiero Mughini, gran segaiolo narcisista. Mi capita di leggere Batbara Costa su ” intellettuale dissidente” e tuto conferma quanto hai scritto.
Mughini 2.0, come se ce ne fosse stato bisogno…