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Almirante e Berlinguer, quegli incontri che salvarono la Repubblica

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I due leader ebbero colloqui segreti per arginare il terrorismo. Antonio Padellaro riprende questa vicenda nel suo Il gesto di Almirante e Berlinguer

«La porta si aprì, B. andò incontro ad A. e per la prima volta si accorse che aveva pupille immobili e intensamente azzurre. Si ricordò di aver letto che quello è il colore dei ghiacciai in movimento».

Semplicemente A. e B.. Ma negli anni ’70 queste due lettere erano molto più che iniziali: indicavano una contrapposizione totale, come l’alfa e l’omega della Bibbia.

Almirante arringa la folla durante un comizio del ’76

Corrispondevano a Giorgio Almirante e a Enrico Berlinguer. E di loro racconta Antonio Padellaro, ex direttore de Il Fatto Quotidiano che vanta addentellati importanti col mondo postcomunista (diresse l’Unità finché l’ecumenico Veltroni non gli preferì Conchita De Gregorio), nel suo pamphlet Il gesto di Almirante e Berlinguer, uscito poco prima dell’estate per la romana Paper First, la casa editrice de Il Fatto.

Nel libro non c’è alcuno scoop, perché Padellaro si limita a riprendere un episodio già noto, che circolava sin dagli anni ’90 nel sottobosco del mondo postfascista finito in An e poi divulgato nel ’98 da Sebastiano Messina di Repubblica, che divulgò in un suo articolo diventato celebre (Almirante e Berlinguer, quegli incontri segreti) le confidenze di Massimo Magliaro, il portavoce del leader del Msi.

Magliaro è l’unico testimone oculare vivente di una serie di incontri – tra i quattro e i sei –  tra il segretario missino e il grande leader comunista, avvenuti subito dopo la tragica scomparsa di Aldo Moro in una stanza riservata all’ultimo piano di Montecitorio, accanto alla Commissione lavoro, rigorosamente di venerdì sera, quando la Camera era vuota.

Antonio Padellaro

Senz’altro un’occasione per il giornalista de Il Fatto per cogliere un anniversario: il quarantesimo di una storia tragica (il delitto Moro), che invecchia senza maturare veramente.

Ma anche per lanciare un paragone che sottende un forte apologo politico tra il comportamento pieno di fair play e lealtà di due nemici e l’attuale caos di pseudo leader tra i quali non esistono inimicizie abissali di fondo (quella tra comunisti e neofascisti, appunto) ma solo una concorrenza perenne che mette a repentaglio la tenuta delle istituzioni.

I morti non parlano. Quindi Almirante (scomparso nell’88), Berlinguer (morto nell’84), e Antonio Tatò, il portavoce di quest’ultimo (morto nel ’92), non possono confermare né smentire. E la stessa testimonianza di Magliaro si ferma al fatto che questi incontri si siano svolti. Ma non dà lumi sui loro contenuti.

Presumibilmente, i due avrebbero scambiato informazioni e pareri sul terrorismo, allo scopo di arginare la doppia ondata di violenza, rossa e nera, che scuoteva le principali piazze d’Italia.

La copertina de Il gesto di Almirante e Berlinguer

Al riguardo, è semplicemente da applauso l’imparzialità estrema con cui Padellaro, formatosi nei ranghi della sinistra giornalistica, equipara non solo i due leader, ma anche le devianze dei rispettivi ambienti politici:

«Sì, né B. né A. si erano accorti che negli interstizi dell’ideologia propugnata dai loro partiti, era cresciuta come l’ortica una generazione omicida. All’inizio entrambi avevano sottovalutato il pericolo. Poi, più tardi, avevano cercato di contrastarlo».

Una lettura più politica e meno morale (che, si badi bene, oggi non è fuori luogo) di quella di Padellaro consentirebbe di declinare meglio alcuni dettagli di questa narrazione.

Di dire che queste ortiche furono concimate da quello che certi ambienti, che confluirono nei contrapposti extraparlamentarismi e ingrassarono le eversioni, percepirono come un tradimento.

Fu percepita tale la svolta socialdemocratica di Berlinguer, che mirava a inserire il Pci nelle istituzioni attraverso il compromesso storico con la Dc, di cui era stato tessitore l’appena scomparso Moro. Era forse troppo per ambienti tenuti assieme dal culto della rivoluzione e che vivevano già del mito della resistenza tradita.

Ma fu percepito anche come tradimento il tentativo almirantino (tra l’altro appena fallito in seguito alla scissione di Democrazia nazionale pilotata dalla P2) di dar vita a una destra postfascista che inglobava parte del mondo monarchico e liberale e riduceva alla nostalgia gli spazi operativi della cultura (e della prassi) neofascista, sulla base di uno slogan storico: «Non restaurare, non rinnegare».

E non fu un caso che l’ultima, terribile generazione del terrorismo nero si fosse formata nei gruppi giovanili vicini al Msi, che si erano staccati dal partito in piena protesta verso l’accettazione delle pratiche parlamentari e verso la virata conservatrice imposta da Almirante.

Berlinguer saluta la folla

Chiarire quanto la violenza di questi opposti risentimenti fosse davvero equiparabile a livello etico, è affare degli storici. Certo è che la criminalizzazione a senso unico, magari basata sulla ripetizione fuori tempo massimo del mantra sui compagni che sbagliano, non può proseguire in eterno.

Per questo, è apprezzabilissimo il sottinteso di Padellaro, che nell’equiparare invece le preoccupazioni dei due grandi leader, già oggetto di minacce dai propri e altrui estremisti, inizia un’operazione verità non facile.

Così poco facile che è appena accennata nel libro come un sottotesto da sfogliare con cura: le politiche almirantina e berlingueriana avevano puntellato le istituzioni democratiche più di quanto non si pensi e di quanto ammiratori e detrattori siano disposti a concedere.

L’ex repubblichino aveva traghettato definitivamente il suo Msi nella legalità democratica, cercando di dare dignità e ruoli a un mondo neofascista ormai prossimo all’estinzione anagrafica e all’asfissia politica. Allo stesso modo, Berlinguer aveva iniziato il distacco del cordone ombelicale con la casa madre sovietica e orientato il Pci verso l’adesione sostanziale alle istituzioni democratiche, considerate non più il mezzo di una rivoluzione morbida e legalitaria, ma la casa comune e definitiva di tutte le forze civili, comunisti inclusi.

Due sforzi giganteschi.

Da ciò la comune percezione di essere in pericolo e, da questa percezione, il tentativo di dialogare al di là e al di sopra delle rispettive differenze. Magari con quella capacità dei giganti di guardare oltre i propri, opposti steccati e di guardarsi negli occhi.

Appunto, il gesto di cui parla Padellaro.

Una stima reciproca che superò le barriere della vita: Almirante si recò alla camera ardente allestita dal Pci a Botteghe Oscure per rendere omaggio alla salma di Berlinguer.

Nilde Iotti, invece, guidò una delegazione comunista ai funerali del segretario missino.

Potere della stima reciproca, che può nascere da certe contrapposizioni.

Magari tanto più forti quanto più marcate sono le differenze, che nel caso dei due leader non furono solo politiche, come ricorda in un bel passaggio Marcello Veneziani:

«Almirante era il principe degli oratori, paroliere d’Italia, figlio del teatro e amante di Dante e d’Annunzio; Berlinguer era l’antioratore per eccellenza, sobrio. Giorgio eccedeva sul suo piccolo Msi, Enrico invece era sovrastato dal grande Pci. Almirante era ammirato e amato da tanti ma votato da pochi; Berlinguer al contrario fu amato e mitizzato da morto, ma votato da tanti, nel segno del Pci».

Due stili e due parabole diverse. Ma questa differenza accresce l’importanza del dialogo clandestino. Del gesto che, ribadisce Padellaro, fu «una luce dopo tanta oscurità».

Un’immagine simbolo degli anni di piombo

Un gesto che sarebbe andato oltre la politica, come chiosa in conclusione l’ex direttore de Il Fatto:

«Una volta s’incontrarono a Villa Borghese. Soltanto loro due. Senza ombre. Senza scorte. Molti anni dopo A. lo raccontò a una persona cara. Mi piace immaginarli su una panchina. Uno accanto all’altro. Sempre di venerdì. All’imbrunire. Mentre il parco si faceva silenzioso. Magari non avevano nulla d’importante di cui parlare. Magari era solo il piacere di stare lì. Come due persone che non hanno bisogno di dirsi altro».

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

Comments

There are 2 comments for this article
  1. La recensione al libro di Antonio Padellaro mi ha piacevolmente incuriosito, trovo che Padellaro sia giornalista attendibile, i due leader politici eminenti uomini di cultura al di là dei loro schieramenti. Credo che sia possibile rivedere quel periodo storico e inquadrare meglio il fenomeno tristo del brigatismo rosso/nero. Lo si deve fare al più presto se si vuole arginare la deriva qualunquista del “plebismo” del presente.

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