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Tragedia a Cosenza. Ma i guai vengono da lontano…

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Dietro il rogo di Corso Telesio c’è un ventennio di problemi irrisolti, nati da un rilancio solo apparente del centro storico

Ne hanno scritto in tanti e, a dispetto di alcune polemiche facili e gratuite esplose su Facebook, la tragedia è affiorata anche sulla stampa nazionale. Si citano, al riguardo, i begli articoli di Claudio Dionesalvi e Luca Addante, entrambi pubblicati da Il Manifesto.

Una tragedia doppia, per le vite perse (quelle di Antonio Noce, Roberto Golia e Serafina Speranza, periti nel rogo scoppiato nell’appartamento in cui vivevano nel degrado e nell’isolamento sociale) e per la cultura (l’incendio ha lambito Palazzo Compagna, dov’erano conservati manoscritti e opere d’inestimabile valore).

Una volta di più, anzi, una volta di troppo, il centro storico di Cosenza è stato teatro di un disastro. Un disastro annunciato, si può dire, stavolta senza cadere nella retorica di tanta cronaca.

Le fiamme di venerdì hanno gettato una luce sinistra sul degrado, urbanistico e umano, della parte antica della città. Anche questa luce, purtroppo, è l’ennesima.

Si fa presto a parlare di abbandono. Si fa presto a puntare il dito contro questa o quell’amministrazione e a redigere frettolosi cattiveri per gettare la croce a qualche avversario politico, presente o passato.

Ma non è mai troppo tardi per riflettere su una cosa: il rilancio del centro storico, se c’è stato, non è mai stato radicale, chirurgico e profondo come poteva – e doveva – essere.

Tutto cominciò col solito copione di provincia: un grosso nome, in questo caso Vittorio Sgarbi, esternò una serie di lusinghe sugli antichi palazzi e su quelle stradine suggestive che ricordano certi scorci di via Mezzocannone o di Spaccanapoli («Il più bel centro storico d’Italia», disse nel lontano ’90 il celebre critico allora ad inizio carriera), e tutti gli andarono appresso.

Quando è vellicato a dovere, l’orgoglio campanilista dei provinciali diventa una forza irresistibile. Al punto da ispirare i programmi politici. Come accadde, appunto, con il vecchio Giacomo Mancini, che chiuse la sua carriera come sindaco, il primo a indossare la fascia tricolore con l’elezione diretta, sulla base di una formula semplice, suggestiva e, col senno del poi, un po’ populista: il rilancio di Cosenza a partire dal centro storico, non più luogo degradato ma punto di irradiazione di un’identità profonda e di un rinnovato orgoglio civico.

La formuletta, magica in apparenza, resse finché visse l’ex leader socialista.

Il rilancio, in effetti, ci fu: da zona borderline, ispiratrice di leggende nere, la parte più antica della città divenne un’area di attrazione e di movida. Certo, non era tutto oro quel che luccicava, ma le cose si muovevano.

Era il mito degli anni ’90, vissuti e rimpianti come una golden age irripetibile. Di tutto questo non è rimasto nulla. E l’onda lunga di quegli anni e del loro mito, continua ad infrangersi su numerosi scogli, i più spinosi dei quali sono emersi proprio nel centro storico.

L’incendio di Corso Telesio ora. Ma, prima, nel 2015, i crolli dei palazzi. E, nel mezzo, l’emersione di situazioni sociali difficili e sofferte.

Siamo sicuri che tutto questo sia solo l’esito dell’incuria delle amministrazioni – quella di Salvatore Perugini e quelle di Mario Occhiuto – che hanno gestito la città dopo la fine della sindacatura di Eva Catizone, insediata in Comune grazie alla sua qualità di allieva ed erede politica dell’anziano leader?

Siamo davvero sicuri che prima ci fosse l’oro e che, scomparso il Re Mida, questo sia tornato piombo?

A Mancini va riconosciuto un merito: aver inserito il centro storico nell’agenda politica della città. Ma va detto pure che quel che si fece allora, quando le finanze pubbliche non erano al lumicino e il deficit spending non era una bestemmia, non bastò.

Perché, appunto, non fu chirurgico e radicale.

«Furono solo fiumi di birra», disse nel 2008 un ex manciniano diventato antimanciniano quando il nipote del vecchio Mancini aveva rotto l’unità a sinistra e si era schierato contro i Ds, allora egemoni nella maggioranza. Giudizio ingeneroso, ma non del tutto falso. Si può dire, invece e col garbo che si deve alla storia, che molta polvere fu nascosta in tutta fretta sotto i tappeti e dietro i mobili. Si deve dire, invece, che il rilancio fu in realtà un maquillage rivelatosi approssimativo. Si deve insistere, invece, su un punto: non è bastato incoraggiare l’apertura di nuove attività e incentivare il passeggio notturno per far sparire il degrado e volatilizzare l’abbandono. Anche i calmieri sociali, che non furono pochi, si rivelarono un boomerang, scaricato tra l’altro sulla collettività, visto che molti debiti contratti allora sono finiti nel predissesto di oggi.

Il tutto, senza neppure scalfire i drammi reali di quella fetta di città, diventata sempre più periferica a dispetto di tanti tentativi.

Quante persone come i Noce vivono ancora a Cosenza vecchia? Molte più di quel che non si creda. Quanti stabili pericolanti e mai messi in sicurezza continuano a minacciare, in quei vicoli antichi, l’incolumità degli abitanti e dei passanti? Provate a informarvi in qualche ufficio del Comune o presso i Vigili del Fuoco e vi metterete le mani ai capelli.

«Le rughe han troppi secoli, oramai/ e truccarle non si può più», cantava un ispirato Battisti. Infatti, per le rughe di Cosenza ci voleva un bisturi solidissimo. Quello che un grande politico, alla fine della carriera e della vita, non poteva più maneggiare.

Alla fine la polvere, quella che notavano soprattutto i cronisti impegnati a denunciare il degrado, anche in tempi insospettabili, è diventata incontenibile ed è tracimata dagli insufficienti tappeti della propaganda e della retorica. Con la tragedia della scorsa settimana si è arrivati all’anno zero. E a un’alternativa chiara: ricostruire, stavolta per davvero, o abdicare. Per le chiacchiere non c’è più tempo.

 Per saperne di più:

L’articolo di Claudio Dionesalvi su Il Manifesto

L’articolo di Luca Addante su Il Manifesto

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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