Un ricordo di Coco, l’eroina borghese della femminilità
La celebre stilista nacque il 19 agosto. Inventò il tailleur e diffuse i pantaloni tra le donne
A rigore gli anniversari sono a cifra tonda, o in numero dispari: 10, 15, 20 (di solito è il primo importante), 25 ecc.
Nel caso di Gabrielle Bonheur Chanel, la provinciale della Loira che sarebbe diventata, a Parigi e grazie a Parigi, una delle più importanti stiliste di tutti i tempi, il numero è il meno adatto alle celebrazioni: il 19 agosto sono 134 anni dalla nascita e 46 dalla morte e i giornali, soprattutto online, che hanno riportato l’evento l’hanno fatto per colmare il classico vuoto agostano di notizie.
Ma vale comunque la pena ricordare Mademoiselleelle Coco una volta di più. Certo, forse non fu l’archetipo di eroina femminista che certi biografi, esperti di moda ma digiuni di politica, hanno provato a disegnare alla meno peggio: troppo legata a un’idea di femminilità da difendere e diffondere, quando essere femminili era costoso, Coco, di poverissime origini, ebbe aspirazioni borghesi e inclinazioni più produttive che artistiche.
«Una goccia di Chanel n°5 e vado a letto», avrebbe detto un’altra icona della femminilità, Marilyn Monroe, quando Coco, era passata dal pret a portaire, con cui aveva fatto fortuna, alle essenze.
La battuta non sarebbe dispiaciuta ad Andy Wharol: l’icona dell’immaginario pop elogiava la mamma del vestiario pop. Il quadretto, insomma, era borghese. E quindi, nella società di quell’epoca, profondamente rivoluzionario. Perché borghese, almeno in Occidente, voleva davvero dire per tutti.
Per capire come stavano le cose, basta guardare una fiction qualsiasi ambientata nella belle époque in cui le dame di gran classe svuotavano i portafogli dei mariti per indossare autentici strumenti di tortura, come i terribili bustini con le stecche di balena, merletti e pizzi anche in agosto e i pesantissimi cappelli con veletta davanti e composizioni floreali sopra. Le popolane e le lavoratrici, invece, sembravano vestite a lutto.
Con Coco, che aveva imparato il taglia e cuci dalle suore che l’avevano allevata in orfanotrofio, la musica cambiò: i cappellini, con cui aveva iniziato la sua scalata, si rimpicciolirono e alleggerirono; via i bustini, che sarebbero stati sostituiti dai tailleur. Le gonne, invece, non si sarebbero accorciate di tanto: al massimo fino al ginocchio, con il leggero spacchetto dietro, creato più per esigenze pratiche che con intenti maliziosi. In compenso, la stilista francese, introdusse i pantaloni, fino ad allora riservati alle cavallerizze o giù di lì.
Ecco, il segreto del successo di Coco, che sarebbe diventato prima internazionale e poi planetario, sta in questo: lei, a differenza di tanti colleghi e concorrenti, non aveva un suo ideale di donna, ma pensava a vestire tutte le donne in ogni circostanza della vita.
Non ebbe onorificenze, come capitò a Mary Quant, l’eccentrica inventrice della minigonna, diventata dama dell’impero britannico: nella francia gollista su Coco pesò anche l’accusa di collaborazionismo, col regime di Petain e coi tedeschi. Sarà stato pure vero, ma è risultato inutile, dato che le donne tedesche a tutt’oggi risultano, in quanto a vestiario e stile, le più refrattarie alle lezioni degli stilisti.
Vestire tutte le donne e abbellirle, valorizzando il dato di partenza (che il più delle volte non coincide coi canoni e, peggio ancora, coi desiderata degli stilisti): se questa non è democrazia…
Morì sola e ricca, in un albergo di Parigi, dopo una vita sobria e laboriosa, in cui ebbe un unico grande amore, che la lasciò vedova senza averle dato la possibilità di essere moglie. La non molta cultura non le impedì di incidere nella cultura mondiale inventandone una: quella del vestire. Frequentò il jet set e l’intelligentsia del XX secolo, senza farsene condizionare. Fu amica di Picasso e Stravinskj senza provare complessi di inferiorità: loro erano diventati élite creando arte per pochi, lei aveva fatto lo stesso dedicandosi a tutti.
Non è poco.
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