Federico II, il nonno borderline della Germania più grande e pericolosa
Nella sua biografia del re di Prussia lo storico Alessandro Barbero racconta l’Europa del ‘700 e la nascita di una grande nazione
Enigmatico, contraddittorio non poco, cinico, avventuroso ed avventuriero. Ma anche colto, raffinato e incredibilmente eclettico nei settori più disparati.
Federico II di Hoehnzollern fu il primo sovrano moderno in senso stretto. Come condottiero anticipò le tattiche fulminanti che avrebbero consentito a Napoleone, una generazione e una rivoluzione dopo, di mettersi l’Europa sotto il tallone. Come sovrano inventò il cosiddetto Polizei Rechtstaat, cioè l’assolutismo illuminato. Come politico, gettò le basi di almeno due miti, destinati a sopravvivergli a lungo, con esiti anche nefasti: il prussianesimo e, indirettamente, la Grande Germania. Al punto che non pochi storici hanno individuato nel primo, importante sovrano-condottiero della Prussia settecentesca l’antesignano di Hitler, grazie anche alle dichiarazioni enfatiche di quest’ultimo, che si considerava suo continuatore.
Quanto c’è di vero in questa mitografia che, tra una suggestione e l’altra, è riemersa anche durante la riunificazione della Germania, che è riuscita a riproporre a livello economico la propria egemonia sull’Europa?
Prova a rispondere Alessandro Barbero, storico di vaglia, medievista per formazione e divulgatore per vocazione, con Federico il Grande, una agile e appassionante biografia ripubblicata di recente dalla palermitana Sellerio e tratta da Alle otto della sera, una fortunata (e bella) trasmissione andata in onda qualche anno fa su Radio Rai.
Rispondere alle domande accennate sopra e, allo stesso tempo, divulgare un personaggio di grande complessità come Federico II non è facile. Ma c’è da dire che Barbero c’è riuscito in pieno: forse le sue non sono risposte complete, ma lo zelo e l’acume con cui lo storico piemontese ha dipanato l’argomento e chiarito i punti più spinosi è non comune. Per tacere dello stile, che è poi ciò che fa davvero la differenza: Barbero non si limita a descrivere la vita del sovrano e la storia del suo Paese e dell’Europa nel Settecento, ma racconta con garbo e gusto, grazie a un linguaggio fresco, che di sicuro risente del parlato richiesto nelle trasmissioni radiofoniche ma in grado di convincere anche sulla carta.
Non è la prima volta che l’autore si cimenta in lavori del genere: si pensi a 9 agosto 378. Il giorno dei Barbari (Laterza, Roma-Bari, 2005), sempre tratto dalla fortunata trasmissione radiofonica e dedicato alla battaglia di Adrianopoli, da cui iniziò il declino dell’Impero Romano. Ma nel caso del monarca prussiano il prof torinese ingrana la cosiddetta marcia in più, perché racconta eventi e personaggi chiave di un’epoca delicatissima, a cavallo tra l’età moderna e quella contemporanea.
Ma chi era Federico II? La sua omonimia dinastica con l’altro Federico, quello della casata Hohenstauffen, sembra una nemesi: laddove questo, salito al trono in maniera pacifica, incarnò lo spirito universalistico (e quindi multiculturale, multietnico e multireligioso), quello, invece, inventò il nazionalismo tedesco. Meglio ancora: avviò il processo storico-culturale per cui l’ideale del Sacro Romano Impero germanico, che legava popolazioni di varia nazionalità, da quella italiana a quelle slave, attorno a un nucleo teutonico, sarebbe diventato, nel giro di un secolo, un’ideologia nazional-imperialista.
Il tutto a partire dal piccolo regno ereditato dal padre Federico Guglielmo, diviso tra l’altro senza continuità territoriale tra il Brandeburgo e la Prussia vera e propria.
Certo, alcune cose Federico II le trovò già pronte. La prima fu il militarismo (il padre fu celebre per aver creato il battaglione dei Granatieri di Potsdam, una truppa selezionata sulla base della statura, che poi avrebbe fornito il modello ai corpi d’élite occidentali, come ad esempio i nostri Corazzieri). La seconda fu la concezione dell’assolutismo prussiano, per cui il sovrano era il primo servitore del popolo. La terza fu la visione nazionale, concepita in maniera asfittica e provinciale dal padre, che detestava le letture, le lingue colte, la musica e la fastosa etichetta occidentalizzante delle corti europee in nome di una concezione teutonica, piuttosto spartana e influenzata non poco dal puritanesimo protestante.
Federico II, che da principe visse e subì feroci contrasti col padre, fu una mutazione genetica: senza perdere, o senza perdere del tutto, le caratteristiche paterne, traghettò quei caratteri nazionali nella modernità.
Come fu possibile tutto questo? Secondo Barbero, che tratteggia con efficacissime pennellate un imponente ritratto della famiglia Hohenzollern, una chiave di lettura va trovata nei rapporti familiari. Federico era figlio di una coppia malassortita, come spesso lo erano (e lo sono tuttora) molte coppie reali. Del padre si è già detto che non fosse quel magister elegantiae. La madre, Sofia Dorotea di Hannover, sorella di Giorgio II di Inghilterra, era l’esatto contrario: colta, raffinatissima e modaiola, sembrava fatta apposta per contraddire il marito, dal quale viveva a distanza di sicurezza (tranne, ovviamente, per l’adempimento dei doveri coniugal-reali).
Il giovane Federico, legatissimo da una complicità tutta particolare alla sorella Guglielmina, crebbe facendo di nascosto tutto ciò che il padre gli vietava: studiò il latino e il francese, si dedico alla musica e divenne un eccellente flautista e compositore, infine si diede alla filosofia. E non a una filosofia qualsiasi, ma nientemeno che alle più recenti correnti dell’Illuminismo, che in quello scorcio del ’700 era entrato nel vivo. Divenuto amico di Voltaire, si dedicò anche alla scrittura di saggi progressisti, come l’Antimachiavelli, e si definì un sovrano illuminato.
Come principe, Federico fu spendaccione: vinti i conflitti col padre, si creò una corte su misura, piena di intellettuali, per alimentare la quale non esitò a indebitarsi fino al collo coi sovrani occidentali, a partire da zio Giorgio.
Quando divenne re, la musica cambio. Anzi, lui cambiò la musica. Per prima cosa, approfittò dell’estrema debolezza in cui si trovava il Sacro Romano Impero, retto dagli Asburgo e ingrandì la sua Prussia incamerando la Slesia a spese di Maria Teresa d’Austria, che aveva non poche difficoltà a occupare il trono imperiale: certo, era una Asburgo, ma come donna aveva non poche difficoltà a imporsi sulla concorrenza, visto che la legge di successione, anche nel mondo germanico, era rigidamente maschile.
Il gesto di Federico fu piuttosto ardito per l’epoca perché non aveva nessuna giustificazione, dinastica e diplomatica. «Sembrava che giocasse a Risiko», commenta al riguardo Barbero con la solita, rara efficacia.
Il motivo, alla faccia del saggio di gioventù, era il massimo del machiavellismo: la Slesia era il collegamento che mancava tra la Prussia e il Brandeburgo. Lo stesso discorso si sarebbe ripetuto anni dopo con la spartizione della Polonia, alla quale però invitò anche Maria Teresa, forse anche per risarcirla. Quella federiciana era una concezione della politica estera basata sull’efficacia e sulla potenza.
Una cinica Realpolitik in cui rivestiva un ruolo importante il concetto di Lebensraum, cioè di spazio vitale, concepito per la prima volta in chiave statale più che dinastica.
Federico sfidò tutti, in un gioco vorticoso in cui le battaglie, spesso cruentissime, si alternavano ai balletti diplomatici, gestiti con sfacciata disinvoltura.
A furia di violarle, il cinico Federico cambiò le regole del gioco. Vinse e fece grande la Prussia. Di più: creò il mito del prussianesimo, inteso come disciplina, efficienza e precisione, che sarebbe diventato, due generazioni dopo, il core business del nazionalismo germanico.
La vicenda di questo sovrano, che ancora oggi pesa come un macigno nell’immaginario tedesco, è complicata e avvincente. Il merito di Barbero è di averla narrata con mano felicissima, guidando con leggerezza il lettore in un percorso altrimenti accidentato.
Tanti anni fa Montanelli giustificò il successo delle sue opere di divulgazione storica con un’accusa agli storici professionisti che a suo non scorretto giudizio erano incapaci di raccontare i fatti su cui si dilungavano solo a livello di critica. Per tacere della pessima qualità della scrittura dei nostri storici più grandi (e chi si è cimentato con De Felice e Chabod ne sa qualcosa…). Questa lacuna vistosissima ha lasciato campo libero a torme di storici improvvisati, reclutati dagli editori tra i giornalisti, spesso poco qualificati, non solo a livello specialistico.
Il libro di Barbero dimostra, al contrario, che si può essere precisi anche nella divulgazione e che raccontare la storia non vuol dire torturare il lettore.
Federico il Grande è una biografia densa e avvincente, leggibilissima anche sulla spiaggia e in metro. Non solo per passare il tempo, ma anche per imparare qualcosa col sorriso sulle labbra e praticamente senza accorgersene.
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