La Geopolitica, ovvero il mondo nella mente di un generale
Carlo Jean al Master in Intelligence dell’Unical: ecco che succede quando declinano gli Stati
I militari hanno un grosso difetto: sono squadrati. Ma è un difetto di quelli capaci di trasformarsi in pregi inestimabili quando si ragiona su argomenti delicati, ad esempio la Geopolitica: nessuna finzione, nessuna astrazione, nessun ideologismo, neppure inconsapevole o riflesso, e persino l’umanitarismo può diventare un ingombro perché l’importante è arrivare dritti al sodo.
Di questa visione iperealista, forse agghiacciante per le anime belle ma preziosa per gli addetti ai lavori e per gli studiosi, il generale Carlo Jean, appunto tra i massimi esperti di Geopolitica italiani, dà prova da una vita. Anche a costo di apparire dissacrante, come nel 2016, quando ha polemizzato con papa Francesco a proposito dell’emergenza migranti. E questo realismo a prova di bomba lo ha ribadito nel corso del suo intervento, recentissimo, al Master in Intelligence dell’Università della Calabria diretto da Mario Caligiuri, in cui ha mescolato con abilità i concetti della Geopolitica contemporanea (di cui ha dimostrato di essere un cultore più che smaliziato con i suoi classici Geopolitica del XXI secolo e Geopolitica del mondo contemporaneo) con quelli della Geopolitica economica (dice qualcosa Intelligence economica. Il ciclo dell’informazione nell’era della globalizzazione, scritto a quattro mani con Paolo Savona?).
Il nocciolo del Jean-pensiero ruota essenzialmente su due concetti chiave, va da sé interconnessi: il depotenziamento degli Stati e l’aumento delle interconnessioni internazionali. Questa interconnessione, causa ed effetto della globalizzazione, genera un paradosso, che va a detrimento dell’autonomia e dell’autorevolezza della sfera politica: «Le interconnessioni economiche tra gli Stati sono aumentate, a differenza di quelle fiscali e sociali». Detto altrimenti, agli Stati tocca un ruolo residuale in processi decisionali che per la maggior parte si svolgono altrove: «I mercati hanno subito una fortissima tendenza unificatrice, favorita dallo sviluppo tecnologico e dalle multinazionali. Infatti i capitali vengono collocati dove c’é convenienza. Gli Stati, invece, hanno perso il controllo della ricchezza, in termini di distribuzione, con la conseguente accentuazione delle differenze sociali».
Questa situazione, anche secondo Jean, è l’esito della fine della Guerra Fredda, che ha comportato il ridimensionamento della centralità dello Stato, in quanto tale e come veicolo di valori culturali e ideologici. Infatti: «Il collasso dell’Urss aveva suscitato grandi speranze che il sistema liberale avrebbe dominato il pianeta, ma questa fiducia è stata scossa dalle guerre balcaniche e dall’11 settembre». Ma il liberalismo, senza il suo contraltare naturale, l’ideologia comunista, è diventato pensiero debole, mentre i valori più arcaici si sono rafforzati. Anche su questo aspetto Jean è puntuale, con dovizia di citazioni: «Samuel Huntington ipotizzò che le conflittualità del mondo non sarebbero state più tra ideologie ma tra piccole identità locali, con conseguente aumento delle turbolenze: il fenomeno si è infatti verificato in tutta Europa e nei paesi della ex Jugoslavia, dove si è passati dalla fine delle ideologie al rifugio nelle piccole patrie».
Questo etnocentrismo turbo, che mira a ridimensionare non solo il ruolo ma anche le dimensioni territoriali degli Stati, è un processo politico complementare e tutt’altro che contraddittorio del turbocapitalismo. Ed è ovvio che in questo quadro in movimento frenetico ci sia chi ci guadagna e chi, al contrario, ci rimette: «Le recenti vicende geopolitiche hanno visto riconfigurarsi il ruolo di grandi potenze come gli Stati Uniti d’America e la Russia mentre assistiamo all’esponenziale sviluppo di Paesi come Cina ed India». Intendiamoci, il declino degli Stati Uniti, tanto strombazzato da più parti, è ancora lontano: «Questo sarà ancora il secolo americano e quindi la politica di Kissinger continuerà. L’egemonia militare degli Usa, che investono circa 700 miliardi di dollari in spese militari, non corrisponde al suo ruolo politico che si è notevolmente affievolito rispetto al passato. Ciononostante, solo tra il 2060 ed il 2070 il ruolo centrale degli Usa potrà essere messo in discussione dalla Cina, che spende attualmente in armamenti 230 miliardi di dollari».
E non è tutto rose e fiori per i competitor dagli occhi a mandorla: «La Cina presenta diverse vulnerabilità e soprattutto risente di una endemica prevalenza delle regioni interne rispetto a quelle marittime. Anche per questo sta sostenendo con investimenti notevoli la nuova via della seta marittima e terrestre. Il Paese del dragone soffre pure dell’endemica carenza d’acqua; basti pensare che la popolazione cinese rappresenta il 20 % della popolazione mondiale mentre detiene solo il 6 % dell’acqua potabile del pianeta. Per questi motivi la Cina cerca di conquistare i mercati esteri, occupando innanzitutto l’Africa per assicurarsi il cobalto dello Zaire e l’iridium, fondamentale per immagazzinare l’energia elettrica prodotta dalle fonti rinnovabili».
E la Russia? L’orso siberiano non se ne sta con le mani in mano. Anzi: il suo recente attivismo, anche militare, sulla scena internazionale è la dimostrazione che, anche in questo caos, la politica, intesa in senso tradizionale, ha non poche carte da giocare: «La Russia soffia sul vento dei localismi per indebolire l’Europa. In questo Vladimir Putin si conferma un grande stratega affiancato da una classe dirigente che segue una logica imperiale, ragionando sul lungo periodo».
Per arrivare alla situazione italiana, occorre passare per il cerchio dell’Ue: «L’Italia ha utilizzato male la flessibilità del debito concessa dall’Unione Europea poiché, anziché sostenere il credito, ha finito per espandere la spesa pubblica anche attraverso l’attivazione di vari bonus che non hanno inciso sulla produttività». I guai, sempre a proposito di Ue, non finiscono qui: «L’Italia restituisce ogni anno circa 8 miliardi di fondi europei, una cifra impressionante che equivale allo 0,5% circa del Pil».
La morale di questa favola non facile si riassume in una parola: impasse: «Occorre un più efficace utilizzo dei fondi europei. La strada della diminuzione del cuneo fiscale è decisiva ma difficilmente percorribile, perché necessiterebbe di una drastica riduzione della spesa pubblica che nel breve periodo corrisponderebbe ad un elevato disagio sociale». E il Sud? Ancora più ingarbugliato, alla faccia della tanto sbandierata mediterraneità: «Lo sviluppo del Mediterraneo, in Italia non favorisce le regioni del sud ma quelle del nord perché sono più attrezzate dal punto di vista industriale. Occorrerebbe una riforma dello Stato che creasse le condizioni per investire al sud e la risposta non può essere più quella assistenziale».
Pure l’ipotesi di trasformare il Mezzogiorno in una specie di Florida dell’Ue incontra seri ostacoli: «Il futuro del sud potrebbe essere quello di accogliere i sempre crescenti anziani del centro e del nord Europa ma, ancora una volta, per realizzare queste politiche occorrerebbe un sistema sanitario efficiente che, in Italia, è presente principalmente al Nord». Lucidissimo e per nulla spaventato dall’impopolarità di quel che dice – e forse con la consapevolezza che più una cosa è impopolare più è vera – Jean parla da professore ma pensa da generale, perché a sentir lui anche la cultura diventa un campo di battaglia.
A sentirlo parlare verrebbe da chiedersi se il generale Jean abbia mai perso una partita a Risiko. Ma forse la domanda è oziosa: uno come lui, che si è occupato di guerre vere, non ha proprio bisogno dei wargames.
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