Troppi giornali online? E che male c’è?
I giornalisti calabresi hanno celebrato la “loro” festa dei lavoratori nel segno della denuncia: troppo sfruttamento
Carlo Verna: la “polverizzazione” delle testate sta trasformando il giornalismo ed esaspera la concorrenza
Ma questo processo, agevolato dalla rete, può essere un’opportunità per l’informazione, purché si diano regole certe e rigorose
Chi è giornalista non può tirarsi indietro su un avvenimento delicato come il Primo maggio dei giornalisti, che la Fnsi (per chi non lo sapesse, la Federazione nazionale della stampa italiana, il sindacato di categoria dei giornalisti) ha celebrato a Reggio Calabria.
A freddo e fuori dai denti: è stato un bene che i vertici dell’Ordine e del sindacato abbiano fatto il punto. Magari a livello pratico per molti le cose non cambieranno granché. Ma è stato importante che qualcuno certe cose le abbia dette e denunciate.
Ha ragione Carlo Parisi, il segretario aggiunto della Fnsi nell’invitare a denunciare e a rifiutare contratti e proposte di lavoro vergognosi. A denunciare anche in assenza di alternative, perché fuori dalla porta dell’editore c’è la fila di aspiranti giornalisti disposti a lavorare gratis pur di firmare qualcosa.
E non si può non essere d’accordo con quel che ha detto Nicola Gratteri, l’icona antimafia della Calabria, a proposito di certi imprenditori ricchi che parlano di morale «quando sanno che nei propri giornali c’è gente che lavora per pochi euro al pezzo o pochi centesimi al rigo». Questo era già un dramma quando il monopolio dell’informazione era ben stretto nelle mani della categoria. Ora è una tragedia: alla fine del tunnel dello sfruttamento non c’è più la luce per nessuno e gli operatori dell’informazione si trovano senza prospettive, all’infuori del precariato permanente e di un declino inesorabile.
Giova ripetere: anche prima per i più la situazione non era migliore: l’abusivismo di redazione, la gavetta fatta di onerose gratuità, le condizioni di lavoro, pesanti e spesso svolte in ambienti improbabili, sono stati la regola per tantissimi.
Ma ora che la crisi ha rotto il tappeto e la polvere viene fuori a nuvole non si può più far finta di nulla. Non si può non notare che l’informazione è cambiata e che la tutela del giornalismo deve assumere altre forme.
Al riguardo merita un po’ di attenzione quel che ha detto Carlo Verna, il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. Verna, in particolare, ha denunciato la perdita di tremila posti di lavoro giornalistico negli ultimi cinque anni. E ha parlato di un altro fenomeno: la “polverizzazione” delle testate, cioè l’aumento esponenziale, agevolato dalla rete, di mezzi di informazione.
Verna, c’è da dire, non ha messo in relazione diretta i due fenomeni. Ma questa relazione c’è e sfiora il paradosso: nel momento in cui i media, soprattutto i giornali cartacei, ridimensionano il personale, cambiano le modalità di gestione per abbattere i costi e i diritti di chi ci butta il sangue (si pensi alla pratica dei service) o chiudono i battenti, si assiste a un’esplosione dei giornali online, dei blog e dei siti di informazione. È necessariamente un male? No, purché ci siano regole serie.
Certo, i siti fotocopia, che ricicciano le notizie di cronaca non servono: il pubblico, ricordava Vittorio Feltri, non ha poi quella gran fame di notizie e, soprattutto, non ha una forte capacità di assorbimento dell’informazione. Non è il caso di parlare dei propalatori di fake news: questo problema è dovuto spesso alla mancanza di una seria disciplina penale e va ben oltre il giornalismo.
Tuttavia, la “polverizzazione delle testate” può essere un’opportunità se si incanala verso due direzioni: la specializzazione e la critica, le due grosse lacune del giornalismo mainstream.
Il problema vero, in questo caso, è che questi due vuoti non li colmano i giornalisti, ma gli appassionati e gli studiosi. E la colpa, posto che ce ne sia una (o una sola) è del generalismo forzato a cui sono stati costretti di fatto gli operatori dell’informazione. Dai propri limiti e dai limiti di un’editoria che, anche quando non sfiorava l’illegalità, ha mirato più a speculare che a produrre. Esistono nicchie di pubblico che non si esaltano davanti al morto ammazzato né si entusiasmano per qualche dettaglio torbido (quelli con cui i giornali e i tg “aprono” sistematicamente) ma cercano di saperne di più sui propri argomenti preferiti. Il web, se ben gestito, può rimediare un po’ a questa lacuna e in parte lo fa, perché in mezzo a tanta spazzatura – che comunque continua ad abbondare anche nelle edicole – la roba di qualità non manca. Di più: molti talenti, che non riescono a trovare spazio nelle redazioni tradizionali (che spesso sono ambienti incancreniti da pessime abitudini), grazie al web hanno almeno la possibilità di esprimersi. La “polverizzazione” non è quel che gli studiosi, soprattutto i massmediologi, definiscono “segnale debole”. È una realtà forte, che può offrire opportunità.
Ma come venirne a capo? Con regole certe e con una riforma seria della professione, anch’essa tra l’altro invocata a Reggio. Occorre portare il giornalismo, che è o dovrebbe essere autorevolezza e qualità dell’informazione, nel web e non importare le pratiche della rete, spesso caotiche e non sempre positive, nei media. L’alternativa è secca: dare regole e garantire qualità, significa restituire l’informazione ai giornalisti; il contrario, invece, significa solo tutelare il monopolio dell’editoria sull’informazione. Con i risultati penosi e i costi elevati, soprattutto umani, a cui assistiamo da almeno un ventennio.
Saverio Paletta
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